Articoli del giornalino n.4/2025 - Settembre/Ottobre
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L’albero della vita cresce quando e dove non sai
Nel cuore della valle, lungo il sentiero che conduceva al torrente, s’innalzava l’abete.
Era lì da tempo immemorabile e nella corteccia spessa, ricoperta di muschio, custodiva il trascorrere del tempo; ascoltava storie d’uomini e di cose; raccoglieva a uno a uno gli istanti come perle preziose e le riordinava come le pagine di un libro per poi, appena calava il sole, nella luce fioca del crepuscolo, darle al vento che, in un breve stormire, le ridonava al torrente. Così trascorrevano le stagioni, gli anni. Gli uomini, a dire il vero, poco conoscevano di questa vita. I più, chiusi nei loro pensieri, passavano senza far caso all’abete; altri si fermavano un istante, coglievano un frammento di bellezza, il tempo di scattare una fotografia e riprendevano il cammino. Gino era una di quelle rare persone che sapeva ascoltare e ogni pomeriggio, finiti i compiti, correva al fiume, si sedeva sotto l’abete, chiudeva gli occhi e attendeva che scendesse la sera. Ascoltava il mormorare del vento, lo scorrere del ruscello, le voci delle creature del bosco e, allo stesso tempo, dal suo cuore scaturivano altre parole, raccontava la storia della sua vita. Giorno dopo giorno, quelle parole s’imprimevano nella corteccia. Così per molti anni fino a quando, una sera, Gino non venne: tramontò il sole, si spense la luce del crepuscolo, nel cielo balenarono le prime stelle e soltanto a notte inoltrata arrivò il ragazzo che si fermò davanti all’abete con il volto corrucciato rimanendo a lungo in silenzio. “Hai atteso le tenebre per venire da me? Che cosa devi dirmi?” domandò infine l’abete. “Sono stanco di questa vita” rispose il ragazzo “sono stanco del villaggio, sono stanco delle tue storie e voglio andarmene da qui per conoscere il mondo”. “Allora fai quello che devi fare ma fallo presto” disse l’abete. Gino estrasse un coltello dalla bisaccia e, con gesto repentino, incise la corteccia dell’abete là dove erano custodite le parole della sua vita; poi strappò la corteccia dal tronco, la gettò lontano e corse via senza voltarsi. Di ciò molto si dolsero l’abete, il vento, il torrente e le creature del bosco ma la vita pulsava nei loro cuori e ogni giorno raccontavano nuove storie e, lentamente, la ferita nel corpo dell’abete si rimarginò. Passarono molti anni e una sera, un vecchio, con passo malfermo si avvicinò all’abete. Tremante nello sguardo e tenendo il capo chino, allungò una mano e toccò la corteccia. “Ti ricordi di me?” disse “Molto ho viaggiato, ho conosciuto il mondo, ho raggiunto fama e ricchezza, però mai ho incontrato il cuore della vita”. Rimase a lungo in silenzio nell’attesa di una parola ma l’abete taceva. “Perché non parli” domandò il vegliardo “sei adirato con me? O forse sono io che non so più ascoltare la tua voce”. Si avvicinò all’abete, accarezzò la corteccia, si sedette sull’erba e appoggiò le spalle al tronco esalando un profondo respiro. “Ecco il mio respiro”, disse, “è tutto quello che rimane di me”. All’improvviso, udì la voce dell’abete; dapprima come un sussurro leggero poi la voce si fece più nitida e profonda e raccontava la storia della sua vita. Pieno di stupore il vegliardo ascoltava e rivide i suoi genitori e i suoi fratelli, le fanciulle che aveva amato, ritornavano episodi annegati nelle sabbie del tempo, attimi che credeva smarriti per sempre. “Nel profondo di me custodivo la tua vita”, disse l’albero “e attendevo che tornassi per ridonartela. Nulla di ciò che è buono, vero e bello, va perduto. Rimane. E genera altra vita. Guarda davanti a te, guarda oltre!”. Il vegliardo guardò oltre e vide che là, dove molti anni prima aveva gettato la corteccia, era cresciuto un piccolo abete. Lentamente gli si avvicinò, appoggiò le mani sull’esile tronco e le ritrasse colme di resina. Ora ascoltava infinite storie. Divenne albero e voce delle creature nel bosco, goccia di luce nel torrente, accordo d’arpa nel coro degli angeli. Il suo volto aveva le fattezze di un bambino, sulle sue labbra scaturì l’infanzia di un sorriso, un palpito d’amore raccontava il vagito di una vita. Pietro Pinacci |
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IL VIAGGIO IN UZBEKISTAN
23 – 30 APRILE 2025 Parte I Il primo pensiero è di un paese attraversato dalla Via della Seta, molto orientale, caotico, sporco, con profumi e odori persistenti, gente invadente, città abbastanza degradate. Si, ma dov’è? E’ una lingua di terra in Asia centrale che si estende da nord a sud, chiusa fra il Kazakhistan, il Kirgyzstan, il Turkmenistan e il Tagikistan, senza sbocchi al mare (uno dei quattro paesi al mondo). Territorio piatto: a nord quel che resta del più grande lago al mondo, il lago di Aral, detto anche il mare di Aral, ormai quasi prosciugato per poter destinare grandi aree alla produzione del cotone; al centro il grande deserto di Kyzyl Kum, da non confondere con il classico deserto di sabbia, ma una sterminata terra piatta praticamente disabitata con cespugli, verdi in questa stagione, a perdita d’occhio che occupano gran parte del territorio da ovest a est. Il paese è attraversato a nord da due grandi fiumi: Amu Darya e Sir Darya. La storia ci racconta di Gengis Khan che invase e sterminò la popolazione nel 1200, poi Tamerlano sconfisse i mongoli nel 1400 e ricostruì le città, quindi tribù nomadi occuparono i territori nel 1600, formarono un proprio stato e iniziarono i grandi commerci con Cina, India e Europa, trasportando merci con carovane di cammelli. Poi nel tardo 1800 arrivarono i russi che rimasero nel territorio fino al 1991, anno della proclamazione dell’indipendenza. La popolazione uzbeka è la più popolosa dell’Asia centrale (35 milioni di abitanti), la lingua ufficiale è l’uzbeco ma si parla anche russo e tagiko; la moneta ufficiale è il sum. La premessa è stata completamente stravolta: è un paese molto pulito, ordinato e con poco smog; abitazioni per la gran parte ben tenute; viali alberati con piante di gelso e fiori colorati lungo i marciapiedi; donne ben curate che si occupano abitualmente della tenuta ordinata delle zone pubbliche; venditori che propongono i loro prodotti con un sorriso, mai invadenti, sempre propensi a trattare e disponibili a farsi fotografare; mai caos se non un flusso di gente, per lo più turisti, non particolarmente chiassoso; profumi di cucina speziata e di carni alla brace; non abbiamo notato poveri che chiedessero l’elemosina. I trentasei partecipanti sono over 70, con la piacevole eccezione di un gagliardo 96 enne, di grande spirito e tenuta, tutti curiosi e con esperienze di grandi viaggi e pertanto abituati agli eventuali intoppi e a come superarli senza farsi prendere da panico o arrabbiature. Pronti via. La prima tappa è Khiva (circa 90.000 abitanti) a km 30 dall’aeroporto di Urgench. È una città deliziosa divisa un due parti: la città vecchia (Ichan-Kala) e città esterna alle mura (Dichan-Kala). La parte ovviamente più interessante è la città vecchia, patrimonio dell’Umanità, con le grandi mura fortificate di 30 metri che resistono al tempo circondando il centro storico fatte di argilla pressata con paglia, con tre porte di accesso. Il primo colpo d’occhio è stupefacente con i colori della terra che si mischiano al cielo azzurro. La cittadella occupa circa 6.000 abitanti, dediti al commercio. All’ingresso della porta d’accesso si vedono le bancarelle che vendono i prodotti locali: sete, caffetani, abbigliamento, cappelli di astracan e di altre pelli, ceramiche e prodotti artigianali in legno e gesso. Un fiume di gente che curiosa, fotografa, chiacchera. Ci sono le famose Madrase (originariamente luoghi di culto e insegnamento di astronomia, matematica, economia e scienza) strutture alte fino a 30-50 metri ricoperte di maioliche a colori prevalentemente blu e bianchi con disegni floreali e scritte in arabo che contrastano con i mattoni sullo sfondo. All’interno cortili quadrangolari e massicce torri cilindriche agli angoli. La più famosa Madrasa di Muhammad-Amin, poi la Moschea Juma, con una selva di 216 colonne intagliate in legno di olmo e con un minareto di 52 metri e poi ancora la fortezza Kunya-ark, la Madrasa Muhammad Rakhim-Khan, il minareto Kalta-minor e il minareto Islam-Khodja il più alto della città. La cittadella è piena di Madrase e minareti e noi cerchiamo di visitarli tutti, a rischio di dimenticare i nomi e le storie relative alle singole costruzioni. Fa parte dell’avventura e siamo investiti di notizie di personaggi, aneddoti che entrano nella memoria e chissà per quanto tempo vi resisteranno. La cucina è caratterizzata da verdure cotte, spiedini di carne di manzo, montone e pollo, ben cucinati e non troppo speziati, a vantaggio dei nostri stomaci non abituati a cibi orientali. Il tempo scorre veloce e ci si accorge che arriva la sera dalla stanchezza delle gambe. Il tempo è gradevole: sole e 20 gradi. Il viaggio prosegue in pullman il giorno seguente per attraversare il deserto del Kyzyl Kum (deserto di sabbia rossa) dopo una notte confortevole in un buon hotel di taglio occidentale con camere ampie e ben attrezzate. La meta è Bukara e dobbiamo percorrere circa km 450 attraverso una zona non popolata e pressoché desertica. Le strade sono larghe, diritte, con poche curve, lastricate in cemento (l’asfalto si deteriora con il gran caldo estivo), non sempre in buone condizioni e gli ammortizzatori del pullman ne risentono; il traffico è prevalente costituito da enormi camion per trasporto merce; il limite di velocità è di 100 km/h e tutti lo rispettano. Ogni km 100 ci sono aree attrezzate con servizi igienici, mini market e distributori di propano, metano, diesel e benzina. Fa molto caldo, si sfiorano i 36°. Il panorama è monotono ma siamo nel deserto e lo spettacolo è fornito da ciuffi di arbusti verdi e un panorama uniforme del nulla. Il commercio è fantasioso: nell’area di servizio arriva una grossa macchina e dal bagagliaio emerge una quantità enorme di scarpe da vendere ai turisti. Sono le 16,00 e arrivati in Bukara, prima di andare in hotel, la guida ci porta nella piazza principale Reghistan e nel quartiere ebraico ci indirizza nell’immancabile negozio di artigianato di sete e ricami. Finalmente andiamo in hotel che si presenta di ottimo livello con camere spaziose e servizi di adeguato livello. Dopo cena, ancora in forza fisica, torniamo al Reghistan per le foto con i monumenti illuminati e osservare curiosi le famiglie con bambini che affollano la grande piazza, mangiano, bevono e godono il piacevole clima della serata. (continua…) Bruno Giavarini |
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Bergamo per la pace
A Bergamo è in atto una bella iniziativa a favore della pace.E’ iniziata lo scorso 16 aprile al Museo Gres art. 671 e propone una serie di eventi sul tema della pace che includono mostre d’arte, incontri e dibattiti che proseguiranno sino al prossimo 12 ottobre.La Cultura della Pace è il programma che ha il significativo titolo in latino e inglese: “De bello. Notes on war and peace” ossia: “Sulla guerra. Note su guerra e pace”. Lo scopo è quello di promuovere la pace globale, la riconciliazione e i diritti umani. Gli eventi saranno caratterizzati da discussioni dal vivo così da permettere al pubblico di confrontarsi con personalità internazionali e di riflettere su come dare un contributo per raggiungere gli scopi. Il primo incontro ha avuto luogo il 23 aprile con la partecipazione di Tawakkul Karman, giornalista e attivista yemenita, prima donna araba a ricevere il Premio Nobel per la Pace nel 2011 e di Samia Nkrumah, figura centrale del panafricanismo contemporaneo e figlia dell'ex presidente del Ghana Kwame Nkrumah.Entrambe hanno portato prospettive diverse ma unite da un comune desiderio di pace, nel cuore di una mostra che riflette sulla guerra attraverso gli stati d’animo umani. Si sono chiamate l’un l’altra “sorelle” a significare comunanza di aspirazioni. La visione di Tawakkul Karman è chiara: “L’Africa è ricca ma gli africani sono poveri.” Ha dichiarato di non volere aiuti ma accordi paritari e diplomatici perché la minaccia più importante alla pace é il sottosviluppo economico. Ha esortato a lottare contro l’odio, il razzismo e la xenofobia. Il prossimo 22 giugno la protagonista dell’incontro sarà l’irachena Nadia Murad, premio Nobel per la Pace nel 2018. “L’arte per la pace” è rappresentata con numerose opere di pittura e scultura contemporanea che si possono visitare nel museo. Enrico Sciarini |
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Raimon Panikkar
La sera del 2 aprile scorso molti segratesi avranno seguito alla televisione il “derby della Madunina”, incontro di calcio tra le due squadre milanesi di Inter e Milan. Contemporaneamente il sindaco di Segrate, nell’Auditorium del Centro Culturale Verdi, (ex municipio) consegnava il premio “Ala d’Oro 2025” alla nostra concittadina benemerita Milena Carrara Pavan che lo ritirava alla memoria di Raimon Panikkar, filosofo e teologo catalano, nato a Barcellona nel 1918 e morto a Tavernet (Spagna) nel 2010. Perché una benemerenza alla memoria assegnata a uno spagnolo? E perché farla ritirare da una signora segratese? Le risposte sono semplici e si trovano nelle parole del Sindaco: “Raimon Panikkar è stato un uomo capace di attraversare confini geografici, culturali e spirituali. Ha saputo tenere insieme Oriente e Occidente, tradizione e innovazione, fede e ragione. Il suo pensiero ci insegna che la vera ricchezza nasce dall’incontro, che la diversità non è un ostacolo ma una possibilità e che la verità non sta mai da una parte sola ma si scopre nel dialogo autentico. Con questo premio abbiamo celebrato la memoria e la grandezza di un grande pensatore e soprattutto riaffermato un’idea precisa del mondo e della politica a cui ci ispiriamo. Questo è il messaggio che vogliamo portare avanti, non solo con le parole, ma con le scelte, con le azioni, con il modo stesso di vivere nella politica e nella società. Ricordare lui e quello che ci ha insegnato non è un esercizio di memoria, è una responsabilità.” Milena Carrara Pavan è la presidente della Fondazione Vivarium Raimon Panikkar, curatrice e traduttrice dell'opera omnia del filosofo che verrà donata alla Biblioteca di Segrate. Quindi è stato un premio assegnato a una persona meritevole e ritirato da una persona altrettanto degna. Le persone presenti hanno inoltre avuto l’opportunità di appurare quanto il dialogo interreligioso e interculturale di Raimon Panikkar (che è stato membro dell'Unesco e del Tribunale permanente dei popoli) abbia spaziato dall’Europa all’India e negli Stati Uniti. I presenti hanno potuto rendersi conto dei valori etici che hanno avuto origine in India e che sono tutt’ora validi nel mondo. Quanto ha scritto Panikkar dovrebbe essere di insegnamento per ogni persona che intenda dedicarsi al buon governo di una comunità o di una Nazione. Enrico Sciarini |
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Il borgo delle sorprese
Gita a Padernello: Castello e dintorni Ce l’abbiamo fatta…Sembrava che questa gita dovesse andare a monte per via dei pochi che erano attirati da mezza giornata senza mangiata e della localitá non attrattiva e sconosciuta ai piú, ma … e qui viene il bello. Comunque andiamo per ordine a partire dal breve viaggio che ci ha condotto nel bel mezzo della bassa pianura padana, polo agricolo e ricco di allevamenti, tra Brescia, Cremona a poca distanza dal fiume Oglio. A Borgo San Giacomo (anticamente Gabiano) di cui Padernello è frazione con ben 5 residenti, sosta tecnica, caffettini vari e gelati al bar della Pesa in centro paese con successiva visita all’adiacente chiesa parrocchiale di San Giacomo Maggiore consacrata nel 1625. La facciata, ridipinta di bianco, ospita tre statue attribuite a Santo Calegari il Vecchio, scultore e incisore bresciano di fine XVII secolo, raffiguranti San Giacomo con ai lati i Santissimi Pietro e Paolo. All’interno presenta 3 navate divise da 5 colonne di marmo e un’abside poligonale che collega la sacrestia (1727) alla base della torre campanaria. Le pareti sono decorate con affreschi e stucchi seicenteschi. Al ponte levatoio ci aspettava Valeria, la nostra esperta guida, impegnata con altri volontari al restauro conservativo del Castello. Il maniero era in totale stato di abbandono, cadevano i tetti, la grande casa era abitata dai piccioni e una parte era franata saccheggiata dai ladri. Non si hanno informazioni prima del 1391, quando alcuni documenti narrano di un maniero di appartenenza della famiglia Martinengo, poi della famiglia Salvadego che lo abitò fino ai primi anni 60 del secolo scorso. Divenne poi castello nel quattrocento e villa signorile nel settecento con ben 130 stanze tra le quali un’elegante sala da ballo e una cappella dedicata ai Santi Faustino e Giovita (una chiesetta loro dedicata è all’Ortica sulla antica via per Brescia… l’abbiamo visitata in una delle nostre uscite). Il 2005 segna l’anno della sua rinascita: viene acquistato dal Comune di Borgo San Giacomo e da privati che concedono il maniero in comodato d’uso gratuito per trent’anni alla Fondazione Castello di Padernello. Il castello, completamente svuotato, è ora arredato con mobili e suppellettili di epoche diverse, forniti da antiquari e donatori. Il maniero é sede di concerti, mostre, eventi culturali e convegni. Interessante è anche il cortile, su cui si affaccia quella che un tempo era la stanza da ballo. L’ampio spazio era completamente chiu-so da mura senza affacci per una miglior difesa. Diventato residenza, vennero aperte ampie arcate e finestre ingentilite da balconcini in stile liberty, per impreziosire e donare luce. Al piano nobile, a cui si accede da 2 ampi scaloni, la sala da ballo ospita le bellissime riproduzioni su tela in alta fedeltá di 15 opere di Giacomo Ceruti detto “Il Pitocchetto”, pittore lombardo di fama internazionale vissuto nel XVIII secolo. Gli splendidi dipinti a olio su tela, raffigurano realisticamente vecchi mendicanti, artigiani, filatrici, orfane e nani in dimensioni quasi reali, sullo sfondo della campagna o in angoli chiassosi della città. La lunga visita si conclude con la riproduzione in alta definizione di un capolavoro della pittura bresciana del Rinascimento, la “Sala delle Dame”, decorata da Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, pittore bresciano del XVI secolo definito il Raffaello Lombardo e dalla sua bottega, in occasione del fastoso matrimonio, celebrato nel 1543, tra il conte Gerolamo I Martinengo di Padernello e la marchesa Eleonora Gonzaga del ramo di Sabbioneta. La Sala originale è custodita e visitabile nel più grandioso dei palazzi privati di Brescia (Martinengo di Padernello/della Fabbrica poi Salvadego). Le otto dame vestono abiti sontuosi, indossano gioielli ricercati e preziosi che ne sottolineano la grazia e il rango sociale. Come sempre il linguaggio è simbolico ed evocativo: le perle richiamano la fedeltà e l’amore coniugale, i cagnolini accarezzati dalle signore ugualmente sono sinonimi di devozione mentre i frutti di melograno richiamano la fecondità e la ricchezza. Le dame sono appoggiate a parapetti decorati da tappeti preziosi, con dettagli ricercati e particolareggiati. Un paesaggio agreste le circonda, pieno di fiori e di essenze, dove lo sguardo si perde e si riposa. Qui si conclude la storia, ma come in ogni castello, non può mancare un fantasma che si narra compaia sulla scalinata ogni decennio il 20 luglio giorno della sua morte: è quello della Dama Bianca, la tredicenne Biancamaria Martinengo, precipitata dai merli del castello, sorpresa e rapita dal volo magico delle lucciole nella notte. Il borgo riserva un’altra sorpresa con il ponte di San Vigilio, dell’artista lodigiano Giuliano Mauri (1938-2008), interprete dell’arte naturale. E’ un artistico intreccio di rami di castagno su un piccolo corso d’acqua. In conclusione un pomeriggio ricco di sorprese e non aggiungo altro… andate a Padernello e sarete sorpresi. Maurizio Besozzi |
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I gatti di mia madre
Mia madre aveva una bellissima gattina tutta bianca con cui parlava moltissimo. Dopo colazione, la pettinava e lasciava la porta aperta per permetterle di salire sui tetti e fare conoscenza con gli altri gatti dei vicini di casa mentre lei la guardava come per salutarla. Un giorno la gattina rientrò insieme con un gatto tutto nero e la mamma fu contenta che non fosse razzista! Fece una cucciolata di gattini bianchi e neri, uno con una macchia scura, un altro con una chiara. Crebbero insieme alla mamma gatta e a mia madre. Quello bianco si divertiva ad allungarsi a forma di sciarpa sul collo di mia madre e la guardava per coglierne le reazioni, mentre muoveva la coda come se fosse un tergicristallo della macchina. L’altro saltava sulle sue ginocchia e la aiutava a giocare a carte: ne prendeva con la zampetta una e irrimediabilmente la mamma perdeva la partita con le amiche. Li trattava come delle persone e loro si specchiavano nel suo umore e la stimolavano ad alzarsi di prima mattina segnalando con un particolare miagolio la loro fame. Mia madre amava gli animali e cercava di nutrirli a sazietà come segno di affetto. Loro, nonostante uscissero da casa a pancia piena, tornavano sempre stringendo in bocca un’ala di colombo o un topino morto. Mentre loro, con la massima fierezza dei felini, mostravano a mia madre la loro cacciagione, lei giustamente rabbrividiva dinanzi a simili trofei e li cacciava via, rimproverandoli dato che in casa un pasto caldo non era loro mai mancato! Se entrava in casa una mosca o una zanzara, loro non le davano tregua; le inseguivano e la loro maggiore soddisfazione era prenderle con l’artiglio, metterle in bocca, assaporarle e ingoiarle. Mia madre strillava “che schifo!” Poi lavava e asciugava loro le zampette, soddisfatta che, grazie a loro, mosche e zanzare non ci infastidivano più. Quando mia madre preparava la valigia da portare in vacanza, Gullit, l’ultimo gatto rimasto, era solito osservarla tranquillamente da un angolo della stanza o da sopra l’armadio, il suo posto preferito e quando lei si allontanava, lui ne approfittava per balzare sopra la valigia: la svuotava per accovacciarsi dentro, quasi a farle capire che non doveva azzardarsi a partire senza di lui. La mamma per niente al mondo avrebbe voluto lasciarlo solo, ma temeva che, una volta arrivato, si smarrisse uscendo dal giardino di casa. Alla fine partiva con le lacrime agli occhi, cercando di rassicurarlo, che sarebbe tornata molto presto. Poi si rivolgeva a noi e aggiungeva: “Non sanno parlare però come si fanno capire”! Tratto dal libro “Ricordi sparsi di Gio” di Gianna Distefano |
Oggi una carellata di umorismo per tutti i gusti…
Si ringrazia BESTI.IT