Articoli del giornalino gennaio/febbraio 2018
Se avessi ancora trent’anni
l nostro giornalino, che curiamo tutti con amore e impegno, compie quest’anno trent’anni. Abbiamo già scribacchiato, in onore dei suoi 25 anni, cinque anni fa, qualcosa di veramente bello e unico: articoli, ricordi, interventi, brani scelti. pagine d’archivio, trafiletti, disegni, e molto altro. Il giornalino non pare una persona che conta i propri anni, uno dopo l’altro, pesantemente, quasi a misurare la propria fatica e sopportazione del tempo che passa. Ebbene sì, il nostro giornalino vive di futuro, ad ogni livello. Un tale, per l’esattezza Robert Allen Zimmerman, meglio conosciuto come Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura, scriveva, nel 1973, il titolo (e i versi insieme alla musica) di una sua celebre canzone: Forever young, per sempre giovane. È un po’ lo spirito che anima il nostro giornalino. Leggi tutto...
Trent’anni di idee, di progetti, di invenzioni, di carta, di stampa, di persone vere, di originalità, di corse in copisteria, di telefonate, di iniziative, di dibattiti, di pagine, di collaborazioni a vari livelli. Non ci sono state particolari sfacchinate, fin dal tempo della sua fondazione: allora era un semplicissimo calendario, un foglio di avvisi, ma aveva già le caratteristiche che sono diventate poi la “faccia” del nostro Movimento, in tutte le sue espressioni. Ma di che faccia si tratta? Innanzitutto la faccia della fraternità: quando diciamo che ci vogliamo bene, non è uno scherzo! È vero, abbiamo avuto tutti un’origine, un inizio, ma ce ne siamo già dimenticati: è come se fossimo cresciuti sempre insieme, se sempre ci fossimo voluti bene. E poi la faccia della collaborazione, cioè il lavoro, ogni tipo di lavoro, fatto “assieme” per l’utilità di tutti. Non assomiglia per niente ad un contributo fatto per, magari, averne un certo tornaconto, ma è una vera “donazione” ai fratelli e sorelle di qualcosa che abbiamo in grande abbondanza: il tempo, l’esperienza, la conoscenza, la volontà. Infine la faccia del futuro, della novità, del tutto sempre nuovo, sempre aggiornato, sempre rinnovato. Questa ultima “faccia” ci porta sempre sul piano delle nuove esperienze e conoscenze, come mai ce le saremmo immaginate. Allora io valgo ancora qualcosa…: sembra questa la risposta personale “più vera” alla domanda del nostro titolo. Andiamo avanti, a cercare coloro che vogliono darsi da fare in qualche campo: il campo della fraternità, il campo della collaborazione, il campo del futuro. Siamo sicuri che questa è “ancora” la nostra vera sostanza, la nostra anima più pura, il nostro vero percorso. Non possiamo fare a meno ora di ricordare le “intenzioni” del nostro patriarca, Vincenzo Naldi, colui che ci ha permesso, con le sue idee e la sua forza, di portare avanti questo bellissimo progetto. Il giornalino che stiamo leggendo, che è l’emanazione di MTE nelle sue varie espressioni, è frutto di questa “vita”; nell’originalità delle sue iniziative sta il segreto di queste nostre tre facce: una volta libero dagli impegni di lavoro e di famiglia, si è dato da fare, si è guardato in giro ed ha capito subito, ha iniziato tutto per primo, per fare il bene di tutti, per gettare dei ponti, per cercare fratelli, collaboratori, gente di futuro. Ora da tempo non è più visibilmente tra noi, ma siamo tutti convinti che stia leggendo anche lui questi nostri foglietti, in un modo tutto suo; e ciò non può farci altro che piacere. |
Cara signora Rea,
sono felice di potere congratularmi con lei per il bellissimo traguardo di età che lei ha raggiunto. Lo faccio come sindaco a nome della città di Segrate nella quale sono molti che la ricordano e la stimano, per i molti anni da lei dedicati a intere generazioni di alunni del Villaggio – Rovagnasco con una passione e dedizione che le ha fatto assegnare l’Ape d’Oro, la nostra onorificenza cittadina. Mi congratulo con lei anche a titolo molto personale, ricordando quanto lei è stata importante per la mia famiglia. Mi riferisco a quanto mi hanno raccontato mio papà Piero e mia nonna Rosi: fu proprio lei, signora Rea, che venne nominata componente della prima commissione comunale per la Biblioteca e che in quella veste andò a chiedere a mio nonna, che era sua collega nell’insegnamento alle scuole elementari, se poteva interessare a mio papà, allora diciottenne, di ricevere l’incarico di bibliotecario con il compito di costituire ed aprire al pubblico la Biblioteca Comunale di Segrate. Mio padre accettò, convinto che quell’incarico fosse un “lavoretto” da abbandonare una volta finiti gli studi. Le cose invece andarono diversamente. Il “lavoretto” diventò stabile; mio papà conobbe mia mamma che era anche lei dipendente comunale ed è rimasto in Comune per più di 41 anni. Anche mia mamma ha un bel ricordo su di lei: un ventaglio che lei le regalò per arricchire la collezione di cui mia mamma è molto orgogliosa. Concludo con un ricordo che riguarda me ancor più
direttamente: la telefonata che lei nel giugno del 2015 fece a mio padre per dirgli che lei, determinata come sempre, era andata fino al seggio per votarmi contribuendo così alla mia risicatissima vittoria al ballottaggio per l’elezione a sindaco di Segrate. Un grande onore che lei mi ha fatto, caricandomi di una responsabilità che spero di meritare fino all’ultimo giorno del mio mandato.
Grazie di tutto, signora Rea, con l’augurio che la attendino ancora tanti giorni da trascorrere serenamente allietati da questi e da tutti i più lieti ricordi della sua lunga vita.
Paolo Micheli
Sindaco di Segrate
sono felice di potere congratularmi con lei per il bellissimo traguardo di età che lei ha raggiunto. Lo faccio come sindaco a nome della città di Segrate nella quale sono molti che la ricordano e la stimano, per i molti anni da lei dedicati a intere generazioni di alunni del Villaggio – Rovagnasco con una passione e dedizione che le ha fatto assegnare l’Ape d’Oro, la nostra onorificenza cittadina. Mi congratulo con lei anche a titolo molto personale, ricordando quanto lei è stata importante per la mia famiglia. Mi riferisco a quanto mi hanno raccontato mio papà Piero e mia nonna Rosi: fu proprio lei, signora Rea, che venne nominata componente della prima commissione comunale per la Biblioteca e che in quella veste andò a chiedere a mio nonna, che era sua collega nell’insegnamento alle scuole elementari, se poteva interessare a mio papà, allora diciottenne, di ricevere l’incarico di bibliotecario con il compito di costituire ed aprire al pubblico la Biblioteca Comunale di Segrate. Mio padre accettò, convinto che quell’incarico fosse un “lavoretto” da abbandonare una volta finiti gli studi. Le cose invece andarono diversamente. Il “lavoretto” diventò stabile; mio papà conobbe mia mamma che era anche lei dipendente comunale ed è rimasto in Comune per più di 41 anni. Anche mia mamma ha un bel ricordo su di lei: un ventaglio che lei le regalò per arricchire la collezione di cui mia mamma è molto orgogliosa. Concludo con un ricordo che riguarda me ancor più
direttamente: la telefonata che lei nel giugno del 2015 fece a mio padre per dirgli che lei, determinata come sempre, era andata fino al seggio per votarmi contribuendo così alla mia risicatissima vittoria al ballottaggio per l’elezione a sindaco di Segrate. Un grande onore che lei mi ha fatto, caricandomi di una responsabilità che spero di meritare fino all’ultimo giorno del mio mandato.
Grazie di tutto, signora Rea, con l’augurio che la attendino ancora tanti giorni da trascorrere serenamente allietati da questi e da tutti i più lieti ricordi della sua lunga vita.
Paolo Micheli
Sindaco di Segrate
Oshwieçim/Auschwitz
Oshwieçim è la cittadina polacca a 50 chilometri da Cracovia dove i Nazisti hanno stabilito il loro primo campo di concentramento per lo sterminio di Polacchi, Ebrei e minoranze, cambiando il nome nel termine tedesco Auschwitz. Perché proprio qui? Perché qui esisteva già una caserma e quindi il campo era pronto, hanno scelto la soluzione più veloce e conveniente. Abbiamo letto testi su Auschwitz, ascoltato testimonianze, visto film sulla vita dei prigionieri, ma essere lì è tutta un’altra cosa. Un pugno allo stomaco, un’emozione molto forte che ti lascia senza parole. Vedere i binari che portavano al campo, le foto dei volti dei prigionieri, le foto del loro arrivo, delle loro cose ammucchiate sulla banchina della stazione; vedere le montagne di scarpe abbandonate, i capelli rasati a tutti i prigionieri al loro arrivo nemmeno raccolti in sacchi, ma ammonticchiati in alti cumuli, è tutta un’altra cosa. Tocchi con mano la pianificazione a tavolino della distruzione della dignità umana. Birkenau, il campo a tre chilometri da Auschwitz, è immenso. Distanze enormi separavano i prigionieri dai campi di lavoro, distanze da coprire tutti i giorni, con qualsiasi tempo. E’ stando lì, nelle vicinanze delle baracche e guardandoti intorno che capisci l’immensità della tragedia. Ancora oggi, rimuovendo la terra, la cenere di quelle migliaia di corpi bruciati nei forni crematori torna a volare nell’aria. La visita ad Auschwitz e Birkenau ci deve spronare a lottare contro qualsiasi forma di sopraffazione, contro ogni tipo di discriminazione nel rispetto della dignità di ogni uomo e donna che vive e vivrà sulla faccia della terra. Paola |
Qui sotto la poesia del nostro Vito Sorrenti in versione completa.
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PREGHIERA
Preghiera di Chief Joseph capo delle tribù pellerossa dei “Nez perce” (Nasi bucati). Tutte le persone sono state create dallo stesso Grande Spirito. Tutti sono fratelli. La Terra è la madre di tutti i popoli e tutti i popoli devono avere gli stessi diritti su di essa. A nessuna persona può essere negata la libertà di scegliersi il luogo sulla Terra ove vivere. E’ più facile che i fiumi scorrano a rovescio che non una persona nata in libertà accetti la costrizione. Come non ci si può aspettare che un cavallo cresca sano e robusto tenendolo legato a un palo, così un Pellerossa non potrà crescere e prosperare tenendolo relegato su un fazzoletto di terra. Ho chiesto a qualcuno dei Grandi Governanti Bianchi da chi avessero ricevuto l’autorità di imporre a un Pellerossa di vivere contro la sua volontà in un determinato posto, vedendo i Bianchi spostarsi a vivere dove a loro più gradiva. Non ho mai avuto risposta. Ho solo chiesto ai Governanti di essere trattati come tutte le altre persone. Se non mi lasciate tornare alla mia terra, datemi almeno un posto dove il mio popolo non muoia così in fretta. Quando i bianchi tratteranno i Pellerossa come trattano loro stessi, allora non ci saranno più guerre. Dobbiamo essere tutti uguali come fratelli, figli di uno stesso Padre e di una stessa madre con un cielo sopra di noi e un’unica Terra che ci circonda e un solo Governo per tutti. Allora il Grande Spirito che ci domina sorriderà a questa Terra e manderà la pioggia purificatrice a lavare le macchie di sangue fatte da mani fratricide sulla faccia della Terra. La razza Pellerossa prega e aspetta che tutto ciò si compia. |
La tribù Pellerossa dei “Nez perce” (nasi bucati) viveva pacificamente nella parte nord occidentale degli Stati Uniti, all’incirca nell’attuale Stato dell’Idaho. La rottura degli accordi stipulati nel 1855 per mantenerli su tale territorio è stata originata dalla scoperta di giacimenti auriferi e consequenziale occupazione da parte di coloni europei. Ne seguirono battaglie iniziate nel giugno 1877 e terminate nell’ottobre dello stesso anno. Durante questi mesi i Nez Perce tennero testa all’esercito degli Stati Uniti. La loro fu una lunga ritirata (circa 1900 chilometri) verso il confine con il Canada, dove speravano di trovare accoglienza. A soli sessanta chilometri dal confine subirono gravi perdite e dovettero arrendersi. I sopravvissuti vennero “deportati” in zone paludose del Kansas, dove molti morirono di malaria. Solo nel 1885 a Joseph e a 268 sopravvissuti venne concesso di tornare al nord nello Stato di Washington nella riserva di Colville. All’inizio dell’800 la tribù era costituita da circa 12.000 persone ora nella riserva ne vivono circa 3.200. Chief Joseph morì nel 1904 all’età di 64 anni.
Enrico |
IL CORO ALPINO
Ovvero un salto di qualità. Da oltre 20 anni assisto alle esibizioni dei cori Alpini portati a Segrate dalla Sezione di “ Limito Pioltello e Segrate” in occasione delle feste natalizie. E’ sempre stata una partecipazione intensa con sentimenti misti: ricordo di analoghe opzioni giovanili e ammirazione per impegno patriottico che ha sempre accompagnato i nostri Alpini sui più disparati fronti di due “ maledette guerre “ Europee. Ma il 25 Novembre 2017 ho avvertito un salto di qualità nella tradizionale manifestazione alpina onorata anche dalla presenza di tanto pubblico e di due sindaci (Paolo Micheli di Segrate e Ivonne Cosciotti di Pioltello ). E’ stata l’ occasione per una esibizione di alto livello offerta dal Coro ANA di Milano, diretta dal Maestro Massimo Marchesotto. Il repertorio esibito ha compreso alcuni pezzi tradizionali (da “Montecanino “, “Stelutis Alpinis “, dal “Testamento del Capitano“ a “Gorizia, tu sei maledetta “), assieme adaltri canti che ricordano vicende meno note ( guerre d’Africa, Adua e Libia ). Da rimarcare anche l’intervento , molto appassionato, del Presidente del Club Alpino Milanese, Luigi Boffi. Ricordando ( ma senza astio!) la scarsa partecipazione dei giovani alla difesa della patria e alla espansione dei valori democratici , il Presidente ha auspicato il ripristino del Servizio Civile obbligatorio anticipando alcune recenti autorevoli proposte politiche e ministeriali . Non si può dimenticare in conclusione, l’ intervento del Capo Gruppo Segratese Roberto Luciani, che ha ricordato le “Penne “ che sono venute a mancare in corso d ‘anno ( Maurizio Pavarotti , Enrico Scanzi , Roberto Bozzolato ) e ha riproposto, con la consueta generosità, le donazioni del Gruppo Alpini alle associazioni caritatevoli dell’ Area. Bruno Curiosità
Tra le svariate collaborazioni, il coro alpino ANA vanta una serie di concerti realizzati con l'Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano diretti da Giovanni Veneri: al Teatro degli Arcimboldi di Milano, nel Duomo di Milano e all'Auditorium di Milano. Particolarità innovativa di questi concerti fu la capacità del maestro Giovanni Veneri di scrivere le partiture per orchestra rimanendo del tutto fedele alle armonizzazioni originali dei canti eseguiti dal coro, senza di fatto stravolgerli. Canta all'estero per le Ambasciate italiane, tra le quali il 2 giugno 2011 a Parigi in occasione della Festa della Repubblica nell'ambito delle celebrazioni per il 150º anniversario dell'Unità di Italia e l'anno successivo al Conservatoire de La Ville in Lussemburgo. La Segreteria |
Cronologia dell’umore
Ho passato parte della mia vita in un piccolo paese di campagna e coloro che apparivano un po' "strambi" venivano dipinti semplicemente persone che avevano la "Luna per traverso!" Era certo un modo un po' sbrigativo per definire i lunatici e come conseguenza non era il caso di fare diagnosi, approfondimenti e cercare eventuali rimedi. Oggi si parla di male oscuro, di malinconia, di male lunatico, sinonimi che sono utilizzati per definire quello che ora chiamano depressione. Questo malessere era già conosciuto nell'antichità. Nella Bibbia la malattia era esplicitamente una punizione divina. Ippocrate (V sec. a C.) il padre della medicina, la definiva - umore nero -. Durante il Medioevo la depressione diventò sinonimo di accidia ( dal greco: mancanza di interessi) e Dante che fu uomo di scienza in quanto speziale, che è l'equivalente dei farmacisti di oggi, non esita a collocare gli accidiosi nel VII canto dell'Inferno contribuendo così a creare l'immagine giunta fino a noi "dell'inferno della depressione". I progressi scientifici ci spiegano come grande personaggi del passato siano stati vittime del male oscuro: Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Torquato Tasso e poi il maestro degli scrittori Willian Shakespeare che descrisse quello che probabilmente è da considerare il più depresso tra i personaggi della letteratura: Amleto. La lista si può allungare con i nomi di Mozart, Leopardi, Lincoln, Tostoy e Van Gogh che scrisse che la radice del male è nella costituzione stessa!? Non necessariamente è così. Le cure esistono e gli specialisti le conoscono. In questo settore le specialità sono molte: c'è lo psicologo, lo psicanalista, lo psicoterapeuta, lo psichiatra, e ci sono anche i nuovi farmaci in grado di prevenire curare ed assicurare a questi ammalati un futuro vivibile. Arrivo al dunque. Forse intorno a noi ci sono parenti, amici, conoscenti che sono preda di questo male oscuro. Cerchiamo di stare vicino a loro con la nostra presenza . Ascoltiamoli, facciamoli parlare e porgiamo loro argomenti positivi e sereni. Certo la terapia medica è di primaria importanza, ma dedicare parte del nostro tempo a queste persone che hanno bisogno di amicizia e di serenità, può fare bene a loro ma anche a noi stessi. Diamoci da fare. Fernanda |
Perché Myanmar
Per programmare un viaggio apostolico di un pontefice penso ci vogliano mesi di contatti diplomatici e soprattutto che ci siano dei validi motivi di ordine religioso, politico e forse anche economico. Non mi è dato sapere quanto sia durata la preparazione del viaggio di papa Francesco in Myanmar e in Bangladesh e neppure a chi va il merito di averlo reso possibile. Però, dopo avere seguito in diretta televisiva l’incontro del Sommo Pontefice con la Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e aver ascoltato i loro discorsi; dopo aver seguito l’incontro del papa con i rappresentati del Consiglio Superiore dei monaci buddisti, e infine, dopo aver visto il papa dialogare con i profughi musulmani in Bangladesh, mi sono reso conto della grande importanza assunta da questo viaggio. E’ fuori dubbio che al Papa ciò che sta più a cuore è la pace mondiale, il rispetto dell’ambiente, la lotta alla povertà e il rispetto reciproco tra le religioni. Lo aveva già affermato due anni fa in un memorabile discorso alle Nazioni Unite terminato con l’appello a tutte le Nazioni a mettere da parte interessi settoriali e cercare il bene comune. Durante l’incontro con la Consigliera di Stato birmana San Suu Kyi il papa ha ricordato che il bene comune lo si raggiunge applicando la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU e le Comunità religiose del mondo hanno compito di instaurare il dialogo interreligioso per facilitare quello tra le Nazioni. Ecco che allora il Suo incontro con i rappresentanti del Consiglio Superiore dei monaci buddisti, nella meravigliosa sala della Pagoda della Pace, è la dimostrazione che il dialogo interreligioso non solo è in corso, ma ha già assunto una dimensione globale. Tant’è che all’indomani, dopo aver dialogato con i monaci buddisti ha incontrato in Bangladesh numerosi musulmani bengalesi che in Myanmar sono perseguitati. Si sta quindi attuando quando proclamato dalla Fondazione Etica Mondiale nel1993: Non ci sarà pace tra le Nazioni se prima non ci sarà pace tra le religioni. Lo confermano alcune dichiarazioni del Pontefice: “I valori del buddismo contribuiscono a costruire insieme un mondo migliore. Le parole del Buddha assomigliano a quelle di san Francesco d’Assisi. La chiesa Cattolica è disponibile al dialogo e gli incontri sono indispensabili per conoscerci meglio e camminare insieme spargendo semi di pace sulla terra.” Insieme ai rappresentanti politici e alle autorità religiose delle due nazioni visitate di semi di pace ne sono stati sparsi molti, probabilmente anche su un terreno sociale fertile; ma nel mondo tecnologico attuale, rimangono purtroppo troppe zone aride sulle quali i semi della pace non riescono a germogliare.
Enrico
Per programmare un viaggio apostolico di un pontefice penso ci vogliano mesi di contatti diplomatici e soprattutto che ci siano dei validi motivi di ordine religioso, politico e forse anche economico. Non mi è dato sapere quanto sia durata la preparazione del viaggio di papa Francesco in Myanmar e in Bangladesh e neppure a chi va il merito di averlo reso possibile. Però, dopo avere seguito in diretta televisiva l’incontro del Sommo Pontefice con la Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e aver ascoltato i loro discorsi; dopo aver seguito l’incontro del papa con i rappresentati del Consiglio Superiore dei monaci buddisti, e infine, dopo aver visto il papa dialogare con i profughi musulmani in Bangladesh, mi sono reso conto della grande importanza assunta da questo viaggio. E’ fuori dubbio che al Papa ciò che sta più a cuore è la pace mondiale, il rispetto dell’ambiente, la lotta alla povertà e il rispetto reciproco tra le religioni. Lo aveva già affermato due anni fa in un memorabile discorso alle Nazioni Unite terminato con l’appello a tutte le Nazioni a mettere da parte interessi settoriali e cercare il bene comune. Durante l’incontro con la Consigliera di Stato birmana San Suu Kyi il papa ha ricordato che il bene comune lo si raggiunge applicando la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU e le Comunità religiose del mondo hanno compito di instaurare il dialogo interreligioso per facilitare quello tra le Nazioni. Ecco che allora il Suo incontro con i rappresentanti del Consiglio Superiore dei monaci buddisti, nella meravigliosa sala della Pagoda della Pace, è la dimostrazione che il dialogo interreligioso non solo è in corso, ma ha già assunto una dimensione globale. Tant’è che all’indomani, dopo aver dialogato con i monaci buddisti ha incontrato in Bangladesh numerosi musulmani bengalesi che in Myanmar sono perseguitati. Si sta quindi attuando quando proclamato dalla Fondazione Etica Mondiale nel1993: Non ci sarà pace tra le Nazioni se prima non ci sarà pace tra le religioni. Lo confermano alcune dichiarazioni del Pontefice: “I valori del buddismo contribuiscono a costruire insieme un mondo migliore. Le parole del Buddha assomigliano a quelle di san Francesco d’Assisi. La chiesa Cattolica è disponibile al dialogo e gli incontri sono indispensabili per conoscerci meglio e camminare insieme spargendo semi di pace sulla terra.” Insieme ai rappresentanti politici e alle autorità religiose delle due nazioni visitate di semi di pace ne sono stati sparsi molti, probabilmente anche su un terreno sociale fertile; ma nel mondo tecnologico attuale, rimangono purtroppo troppe zone aride sulle quali i semi della pace non riescono a germogliare.
Enrico
Viaggio a Cracovia e dintorni
Illuminato da un sole insolito per quelle latitudini, e allietato da un’atmosfera familiare, il nostro viaggio nella Polonia del sud ci ha portato dapprima a Cracovia, la principale meta turistica della Polonia, che affascina il visitatore con la sua immensa piazza medievale (Rynek Glowny), contorniata da chiese ed edifici di vario stile e di alto valore storico, culturale e architettonico, e che costituisce il cuore pulsante del bellissimo centro storico, disseminato di scorci romantici e pittoreschi, fra i quali spicca la collina di Wawel ove si innalzano il Castello Reale e la Bellissima Cattedrale gotica e ove aleggia, in un contesto dal respiro internazionale, l’anima gentile e cristiana della Polonia; dall’alto della stessa collina si può vedere l’acqua chiara e trasparente della Vistola scorrere sotto i ponti di Cracovia nel cui museo nazionale abbiamo avuto modo di ammirare la Dama con l'ermellino, capolavoro leonardesco. La miniera del sale (dismessa), un sito unico al mondo, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’Umanità costituisce l’attrattiva di Wieliczka; la visita è un viaggio nelle viscere della terra che porta, attraverso gradini, cunicoli, gallerie, ad una profondità di 135 m, e consente di vedere, disseminati in un ambiente surreale e suggestivo, scene e strumenti di lavoro, statue, bassorilievi, cappelle, altari, immagini sacre totalmente intagliate nel sale dai minatori. Suscita stupore e ammirazione la cappella della Beata Kinga, una vera e propria chiesa sotterranea di grande dimensione che affascina col suo splendore e i suoi arredi . A Czestokowa sulla collina della luce (Jasna Gora) si eleva il campanile del santuario della omonima Madonna, contorniato dal complesso di edifici sacri. Dentro e intorno al complesso vi si respira un'aria di fede profonda non contaminata dal cinismo e dall'indifferenza, che giustamente lo rendono il luogo di culto più celebre della Polonia. Il visitatore attento e sensibile non può non rimanere scosso e turbato davanti all'icona della Madonna nera, davanti a quel volto sfregiato da mani sacrileghe ed empie. A Wadovice, città natale di Giovanni Paolo II, l'attrazione è costituita dal museo a lui dedicato, che ingloba la casa natale dello stesso. La presenza di documenti, fotografie, oggetti personali, nonché le numerose istallazioni grafiche e multimediali ci hanno consentito di ripercorrere la vita del Pontefice polacco, “il papa viaggiatore”. Ad Auschwitz-Birkenau, superata la soglia del cancello con la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, il visitatore entra in quello che fu uno dei luoghi più orrendi della disumana aberrazione, dove sono stati perpetrati “I più terribili flagelli che l'umanità del nostro tempo ha inflitto a sé stessa” (A. J. Kaminski).Intorno e dentro i blocchi aleggia ancora la selvaggia e malvagia natura dei più perversi aguzzini che costruivano paralumi con la pelle dell'uomo; e dalle reliquie di donne, vecchi e bambini si eleva ancora e risuona l'urlo della disperazione, della pena e dell'umana desolazione. Vito |
ANCORA SULLE VACANZE IN VAL DI FIEMME
Fino al 1918 la valle e l’attigua Val di Fassa facevano parte dell’Impero austro ungarico e i loro abitanti parlavano il ladino, lingua affine all’italiano, ma erano sudditi fedeli dell’imperatore “Cecco Beppe”. Per i loro abitanti la Grande Guerra iniziò nel 1914 e i giovani furono inviati a combattere in Galizia contro la Russia zarista. Quando il 24-5-1915 l’Italia dichiarò guerra all’Impero asburgico le valli ladine diventarono zone di guerra, gli abitanti civili furono inviati come profughi in Austria. Ziano divenne retrovia del fronte e sede di caserme, magazzini di rifornimento ecc. Per questo fu bombardata dalle artiglierie italiane. Sanguinosi combattimenti avvennero nella zona del Monte Cauriol. A Ziano c’era un cimitero di guerra . Il fronte continuava sui Monti Lagorai fino al Colbricon, Passo Rolle per proseguire nelle Dolomiti. Con la pace di Versailles le valli ladine entrarono a far parte del Regno d’Italia. Quando il fascismo andò al potere impose agli abitanti l’uso dell’italiano vietando il ladino e commise altri soprusi come la distruzione del cimitero di Ziano portando le salme negli ossari italiani (gli abitanti di Ziano ricostruirono il cimitero nel secondo dopoguerra recuperando nel vicino bosco le lapidi). Dopo l’8 settembre le valli ladine furono occupate dalle truppe tedesche che ne assunsero il governo. A guerra finita i ladini ritornarono a essere italiani nella regione autonoma del Trentino-Alto Adige. Bisogna anche ricordare che la valle di Fiemme purtroppo subì due luttuosi avvenimenti: la caduta della funivia del Cermis causata dalla tranciatura dei cavi da parte di un aereo Nato in esercitazione (20 morti), e il cedimento in Val di Stava di una diga di terra. Un discorso a parte merita la Magnifica Comunita di Fiemme, un sistema di governo locale ancora in uso. Attualmente la valle gode di una buona situazione economica grazie al turismo di massa, pur mantenendo le risorse locali (pastorizia, agricoltura e lavorazione del legname proveniente soprattutto dalle abetaie di Paneveggio). Riccardo. Breve cronaca
Dopo la bellissima gita al santuario della Corona, e a Modena per festeggiare i 100 anni della nostra Lea, il programma prevedeva una gita a Asti, e così fu. Levataccia… ma alle 7 tutti puntuali alla partenza. All’arrivo ci attendeva una bella e competente guida turistica. Asti, città savoiarda ricca di palazzi delle nobili famiglie proprietarie terriere e degli innumerevoli vigneti. Ho notato sui palazzi tantissime targhe di notai, commercialisti, tributaristi, avvocati e immobiliaristi: questo la dice lunga sulla florida economia agricola locale, pur non mancando le industrie, Asti è famosa per il Palio più antico d’Italia, e ne abbiamo visitato il Museo con gli stendardi e i ricchi costumi. Visita alla Cattedrale e degustazione dei prodotti locali. Poi rientro e Segrate, tutti felici! Riccardo |
Rüsümada
Un uovo è tutta energia! Molti amici, di quelli che hanno sulle spalle qualche anno di più, sulle spalle, se la ricorderanno certo bene. Questa bevanda tradizionale, compagna di lunghi giochi e di fatiche più adulte, è un efficace energetico che, un tempo, i bambini e gli uomini bevevano spesso a colazione per far fronte alle stanchezze di chi stava fuori casa per tutto il giorno, sia che fosse impegnato in lunghi giochi o “vincolato” dal duro lavoro in campagna. Una bevanda sostanziosa e ipercalorica per giornate particolarmente faticose e snervanti! La rüsümada (o rosümada) è una antica bevanda (o merenda) tonica ed energetica. Ma anche bevanda rinfrescante, adatta per i periodi più caldi dell’estate. E' diffusa in tutta la Lombardia settentrionale, specialmente nelle zone agricole, con piccole varianti di preparazione e di dizione dialettale, a seconda del luogo in cui ci si trova. La radice dialettale del nome rimanda al tuorlo (rosso) dell'uovo: rüss d'oof o rüsümm. In seguito, la parola “rüsümada” ebbe anche il significato di mescolare, con una certa velocità, senza pensarci troppo, ingredienti di varia natura, apparentemente incompatibili tra di loro. La sua formulazione è molto simile a quella dello zabaione di vino o di marsala (sapajean o sabajessa). La rüsümada, che si prepara velocemente (senza cuocerla, bene inteso) ma che non si consuma quasi più, veniva giustamente considerata un ricostituente e un protettivo dai malanni da raffreddamento, ma anche un toccasana contro tutti i mali, veri o presunti tali, dettati dalla sapienza della povera gente, di chi cioè non poteva permettersi un medico curante, quindi era costretto ad arrangiarsi. Era l’energetico distribuito un tempo alle giovani madri, oppure il corroborante di chi era appena uscito dall’Ospedale e si sentiva un po’ debole. In passato esisteva persino uno strumento apposito, in uso alle cucine più attrezzate, un frullino meccanico (ora introvabile anche al mercato delle pulci) chiamato “machineta de la rüsümada”, perfetto per montare il tuorlo e creare la deliziosa cremina sullo strato superficiale.
p.Franco
Un uovo è tutta energia! Molti amici, di quelli che hanno sulle spalle qualche anno di più, sulle spalle, se la ricorderanno certo bene. Questa bevanda tradizionale, compagna di lunghi giochi e di fatiche più adulte, è un efficace energetico che, un tempo, i bambini e gli uomini bevevano spesso a colazione per far fronte alle stanchezze di chi stava fuori casa per tutto il giorno, sia che fosse impegnato in lunghi giochi o “vincolato” dal duro lavoro in campagna. Una bevanda sostanziosa e ipercalorica per giornate particolarmente faticose e snervanti! La rüsümada (o rosümada) è una antica bevanda (o merenda) tonica ed energetica. Ma anche bevanda rinfrescante, adatta per i periodi più caldi dell’estate. E' diffusa in tutta la Lombardia settentrionale, specialmente nelle zone agricole, con piccole varianti di preparazione e di dizione dialettale, a seconda del luogo in cui ci si trova. La radice dialettale del nome rimanda al tuorlo (rosso) dell'uovo: rüss d'oof o rüsümm. In seguito, la parola “rüsümada” ebbe anche il significato di mescolare, con una certa velocità, senza pensarci troppo, ingredienti di varia natura, apparentemente incompatibili tra di loro. La sua formulazione è molto simile a quella dello zabaione di vino o di marsala (sapajean o sabajessa). La rüsümada, che si prepara velocemente (senza cuocerla, bene inteso) ma che non si consuma quasi più, veniva giustamente considerata un ricostituente e un protettivo dai malanni da raffreddamento, ma anche un toccasana contro tutti i mali, veri o presunti tali, dettati dalla sapienza della povera gente, di chi cioè non poteva permettersi un medico curante, quindi era costretto ad arrangiarsi. Era l’energetico distribuito un tempo alle giovani madri, oppure il corroborante di chi era appena uscito dall’Ospedale e si sentiva un po’ debole. In passato esisteva persino uno strumento apposito, in uso alle cucine più attrezzate, un frullino meccanico (ora introvabile anche al mercato delle pulci) chiamato “machineta de la rüsümada”, perfetto per montare il tuorlo e creare la deliziosa cremina sullo strato superficiale.
p.Franco
Siamo arrabbiati!
Anzi, di più: siamo molto arrabbiati! Ovvero: un patrimonio rubato in un “silenzio assordante”. Chi di noi volesse recarsi a est di Milano, per ammirare quel verde rigoglioso che era un vanto di tutta quella zona, nelle vicinanze di Segrate, resterebbe profondamente deluso. Cosa vedrà? Cosa troverà? Cosa ammirerà? Cemento, solo cemento. Se un’autostrada incontra una villa storica, in qualsiasi altro paese, l’autostrada fa un passo di lato, una deviazione. In Italia, no. Nel Belpaese l’autostrada si mangia la villa. No certo, non direttamente i suoi muri e i suoi pavimenti: ma tutto il resto intorno sì, i suoi alberi e il suo parco immenso per esempio. La tenuta di Trenzanesio, per tutti Villa Invernizzi, comprende una superficie di 4mila ettari di spazi sconfinati alle porte di Milano. Intonsi. Mai toccati finora. Uno dei pochi patrimoni rimasti a testimoniare un’epoca diversa. Una ricchezza così sconfinata che è difficile da immaginare, oggi, in tempi in cui anche un balcone è un lusso. Ma allora qual è il problema, perché parlarne? Per tutelare i beni di qualche riccone? Non proprio: quel riccone, Romeo Invernizzi, aveva già destinato, nella sua mente, quella immane proprietà a qualcun altro: ai suoi concittadini milanesi. Un’eredità che, nessuno lo dice, è già diventata in gran parte cemento per l’autostrada che fa da corridoio tra Milano, Bergamo e Brescia, la famosa BreBeMi, che tanto ha fatto discutere. E’ a loro, ai cittadini, nella figura del Comune, che Romeo Invernizzi avrebbe voluto dare i terreni della villa palladiana. Prati, zone aperte, in cui l’occhio si perdeva erano protetti da quei giganti gentili, pioppi annosi concatenati dalla nobile siepe di bosso sempreverde, come nei classici giardini all’italiana. Quei filari recintavano il parco della villa storica senza innalzare muri, se non di foglie. Al loro interno, un branco di caprioli che avrebbe fatto la gioia di qualsiasi bimbo. Quei filari oggi non ci sono più, sono diventati cataste di tronchi, pezzi viventi ammucchiati qui e là come in un gigantesco mattatoio vegetale. Le grandi entrate con i cancelli monumentali a destra e a sinistra, grazie alle ruspe, sono ormai nudi, cadaveri senza più significato né funzione. Qualche sparuta voce si leva di fronte al disastro di quegli alberi abbattuti, di quei campi violati, di quegli spazi espropriati ingiustamente. Ma il danno, irreparabile, è ormai stato fatto. E viene da domandarsi il perché. (da una ricerca sul campo di) Lucia |
Arimortis
Quando vediamo un gruppo di bambini o nipoti giocare nei cortili, sui marciapiedi, in piazza, o altrove, saltano all’occhio subito due cose: ginocchia e gomiti con qualche sbucciatura e una leggera sporcizia (per essere buoni…) addosso ai nostri ragazzi. Si gioca all’aperto, si suda, ci si sporca, terra, polvere e fango la fanno da padroni e il gioco è fatto. Ma sentiamo pronunciare da loro anche una parola strana e incomprensibile per indicare che c’è una richiesta di interruzione di gioco. C’è da sospendere un attimo, perché c’è da “regolamentare” qualcosa: l’entrata di un nuovo giocatore, i termini e i confini che cambiano ad ogni piè sospinto, qualcuno che chiama al di fuori dell’area di gioco, la merenda che arriva, ecc.; si grida la parola fatidica: “Arimortis”, abbreviata in “arimo”. Il modo di dire ricorda l'uso latino delle arae mortis, cioè gli altari della morte, specie mucchi di terra costruiti al termine di una qualsiasi battaglia per onorare i caduti. Essi determinavano il campo di gioco; fino a lì ci si può spingere, oltre i confini di questi monumenti funebri era proibito, la competizione (battaglia o gioco) “non valeva”. Una indicazione sacra di tregua rimasta ormai solo nel linguaggio dei bambini. Quando però, una volta conclusa la questione per la quale ci si era fermati, si riprendevano le “ostilità”, si gridava una parola simile: “Arivivis”, che significava l’esatto contrario della prima, ed era il segnale che tutto poteva ricominciare. Si poteva continuare la battaglia, si poteva proseguire il gioco, che terminava quando non si aveva più voglia di proseguire o si voleva cambiare gioco. Erano regole semplici, “fluttuanti”, genuine, fatte al momento, dal primo che capitava, rigorosamente giocatore insieme agli altri e mai adulto, senza troppa burocrazia, qualsiasi fosse il gioco in questione. E chissà quante volte le abbiamo usate anche noi, da bambini, nei nostri giochi, senza saperne il significato; giocavamo con un niente in mano, felici di quelle nostre piccole competizioni, contenti per quella gara che ci faceva sentire in cima al mondo, poverissima di mezzi “tecnici” ma colma di buona volontà, di felicità e di voglia di divertirsi, senza pensieri. Piccolo elenco di giochi di gruppo: nascondino (con tutte le sue varianti), ce l’hai, mondo, le belle statuine, i quattro cantoni, cicca e spanna, la büsa, la lippa, un due tre stella!, il gioco dei tappi, bandiera, la cavallina, rialzo, mosca cieca, girotondo, strega comanda color…, acqua-fuoco-fuochino, e moltissimi altri, tutti divertenti! (da una ricerca di) Chiara |
ATELLANI?
Cioè la vigna di Leonardo a casa Atellani. In una giornata grigia, con l'uscita del pomeriggio per la visita programmata dal nostro MTE alla Vigna di Leonardo e Casa Atellani, ci siamo illuminati con il "Sole" del bello che ci offre la Cultura con le Belle Arti. Dopo una visita alla Chiesa di S.Maria delle Grazie, attraversato C.so Magenta, siamo entrati quasi in punta di piedi e in un religioso silenzio, nell'Edificio di Casa Atellani, che fu la dimora milanese di Leonardo da Vinci, accolto da Ludovico il Moro, nella nostra città, per prestare servizio in qualità di "tutto fare"(così si presentò Leonardo).
Il celebre Maestro in questo caso trovò la soluzione ideale: infatti risultava assai vicino ala Castello, sede della Corte di Ludovico e, nel contempo, vicino anche alle sue altre grandi commissioni, in primis: Il Cenacolo nel convento di S.M.delle Grazie. E se le sue commissioni artistiche e scientifiche furono le sue grandi passioni, un'altra, che è affiorata proprio in Casa Atellani, fu quella della vigna. La Vigna di Leonardo è ora un meraviglioso giardino, detto delle Delizie, con statue, piante e fiori e con al centro una "delicata" fontana. Giardino,che ci ha lasciato a bocca aperta, come i bambini davanti ad un bel giocattolo! La Vigna sorge in fondo ,sul terreno che il Moro regalò nel 1498 a Leonardo.
Se al pensiero di vedere fatta rivivere una vigna plurisecolare, piantata proprio da Leonardo ci ha lasciati esterrefatti, non di meno ci siamo
meravigliati degli interni di Casa Atellani, descritti minuziosamente dalla nostra brava guida che ci ha fatto visitare e descritto la Sala dello Zodiaco, la Sala del Luini, quella dello Scalone ,e lo Studio del magnate dell'Industria Elettrica di un tempo, Ettore Conti. Grazie a questo proprietario che fece restaurare dall'Architetto Piero Portaluppi, dopo la seconda Guerra Mondiale gli interni del Palazzo Atellani, abbiamo potuto vedere le splendide pareti, gli affreschi, le arcate e i portali rinascimentali. Ma è l'atmosfera che si respira in questo edificio, e soprattutto, nel giardino, che ti da un senso di pace, di accoglienza, e di serenità che penso non si possa trovare facilmente in tanti altri luoghi. E poi sapere che proprio lì Leonardo abbia trovato la possibilità di inventare tutte le meraviglia che ci ha lasciato, ci ha commosso. Sarà per questo che al ritorno ho ripreso in mano per leggerlo per la terza volta il Libro "Leonardo da Vinci" di Dimitri Mereskovskij?
Umberto
Cioè la vigna di Leonardo a casa Atellani. In una giornata grigia, con l'uscita del pomeriggio per la visita programmata dal nostro MTE alla Vigna di Leonardo e Casa Atellani, ci siamo illuminati con il "Sole" del bello che ci offre la Cultura con le Belle Arti. Dopo una visita alla Chiesa di S.Maria delle Grazie, attraversato C.so Magenta, siamo entrati quasi in punta di piedi e in un religioso silenzio, nell'Edificio di Casa Atellani, che fu la dimora milanese di Leonardo da Vinci, accolto da Ludovico il Moro, nella nostra città, per prestare servizio in qualità di "tutto fare"(così si presentò Leonardo).
Il celebre Maestro in questo caso trovò la soluzione ideale: infatti risultava assai vicino ala Castello, sede della Corte di Ludovico e, nel contempo, vicino anche alle sue altre grandi commissioni, in primis: Il Cenacolo nel convento di S.M.delle Grazie. E se le sue commissioni artistiche e scientifiche furono le sue grandi passioni, un'altra, che è affiorata proprio in Casa Atellani, fu quella della vigna. La Vigna di Leonardo è ora un meraviglioso giardino, detto delle Delizie, con statue, piante e fiori e con al centro una "delicata" fontana. Giardino,che ci ha lasciato a bocca aperta, come i bambini davanti ad un bel giocattolo! La Vigna sorge in fondo ,sul terreno che il Moro regalò nel 1498 a Leonardo.
Se al pensiero di vedere fatta rivivere una vigna plurisecolare, piantata proprio da Leonardo ci ha lasciati esterrefatti, non di meno ci siamo
meravigliati degli interni di Casa Atellani, descritti minuziosamente dalla nostra brava guida che ci ha fatto visitare e descritto la Sala dello Zodiaco, la Sala del Luini, quella dello Scalone ,e lo Studio del magnate dell'Industria Elettrica di un tempo, Ettore Conti. Grazie a questo proprietario che fece restaurare dall'Architetto Piero Portaluppi, dopo la seconda Guerra Mondiale gli interni del Palazzo Atellani, abbiamo potuto vedere le splendide pareti, gli affreschi, le arcate e i portali rinascimentali. Ma è l'atmosfera che si respira in questo edificio, e soprattutto, nel giardino, che ti da un senso di pace, di accoglienza, e di serenità che penso non si possa trovare facilmente in tanti altri luoghi. E poi sapere che proprio lì Leonardo abbia trovato la possibilità di inventare tutte le meraviglia che ci ha lasciato, ci ha commosso. Sarà per questo che al ritorno ho ripreso in mano per leggerlo per la terza volta il Libro "Leonardo da Vinci" di Dimitri Mereskovskij?
Umberto
QUATER PASS IN GALERIA
Così si esprimevano i vecchi milanesi, quando, specialmente la Domenica pomeriggio, andavano a spasso nel centro di Milano. Li ho fatti tante volte anch'io quei quattro passi con i miei genitori…Questa volta però, anziché dentro la galleria i passi li abbiamo fatti nel percorso aperto nel 2015, in occasione di EXPO, sopra i tetti della galleria Vittorio Emanuele II, il salotto per antonomasia di Piazza Duomo. Purtroppo in un pomeriggio di tipica e insistente pioggia novembrina! Come molti sapranno la struttura di questa è in ferro e vetro, come usava in molte serre e padiglioni a quell' epoca. L'architetto Mengoni, vincitore del concorso indetto per effettuare i lavori nel 1862, riuscì a portare a termine la sua opera in soli due anni e mezzo. Un record per quei tempi. Fu però sfortunato, perché proprio mentre controllava gli ultimi lavori per terminare l' arco trionfale che ne costituisce l' accesso principale, precipitò da una impalcatura e morì a soli 48 anni. Poco tempo dopo, nel 1865 avvenne l'inaugurazione alla presenza di tutte le autorità milanesi e soprattutto di Sua Maestà Vittorio Emanuele II, al quale appunto era dedicata. Non mancarono anche allora polemiche e persino un indagato, perché il Sindaco aveva fatto abbattere le case fatiscenti, che sorgevano sul luogo, a caro prezzo, connivente con un parente che ne era il proprietario. Proprio vero che il mondo è sempre lo stesso oggi come allora! Il percorso fa scoprire da vicino la bellezza della struttura del tetto a croce della galleria e da lontano le più importanti costruzioni che vanta Milano, antiche e nuove, come ad esempio tutta la nuova zona Garibaldi con i magnifici grattacieli, frutto dell'opera di grandi architetti stranieri e italiani di fama mondiale. A fianco al percorso, inseriti nella struttura in ferro della passerella, ci sono diversi “tablaux" con foto, curiosità, poesie e citazioni di personaggi famosi e non. Mi ha colpito la poesia dedicata alla “piscinina", cioè la giovanissima lavorante apprendista di sarte e modiste. La cito, è breve: “La vaa la piscinina per la strada e denter el scatolon la gh ‘ ha un cappell Cont un soris e on' aria scanzonada, squas ‘me dì a la gent: ve piaseriss vedell? De tant in tant la fa ona fermadina, la boffa , la poeugia in tera el scatolon La doeuggia chi è là ora quaj vedrina ……infin la porta a termen la commission. Curiosità: alternate alla passerella in ferro vi sono alcune piattaforme con grandi fioriere nelle quali viene coltivata una vite. La brava guida ci ha inoltre spiegato alcune particolarità proprie della galleria. Al suo interno il famosissimo toro, rappresentativo della città di Torino, capitale d'Italia dal 1860 al 1865, al quale tutti i turisti, ahimè, schiacciano i testicoli mosaicati, perché si dice che questo “rito" porti fortuna. O la spiegazione di quel marchingegno chiamato “el ratin" ossia il topino, che nell’Ottocento, quando ancora non esisteva illuminazione elettrica, caricato a molla, percorreva un binario circolare e accendeva i lumi a gas che circondavano la cupola per illuminarne l'interno. Comunque da quel punto di vista, tetti e comignoli la fanno da padroni e il mio cuore un po' bohemien si è commosso alla loro vista, perché i “tecc del mee Milan" mi han fatto ricordare la mia infanzia e rammentare anche che, Milano, pur essendo una città, per noi milanesi D.O.C. ………..è rigorosamente MASCHIO! Elisa |
Tra nostalgia e progresso
Molte persone si ostinano a mantenere un atteggiamento nostalgico del passato, ma sono degli illusi. Questo concetto è molto diffuso tra noi anziani perché pensiamo che si "stava meglio quando si stava peggio." Il tempo perfetto non è mai esistito per il semplice fatto che l'uomo è imperfetto. L'umanità, in questi ultimi due secoli, ha assistito a cambiamenti che si sono susseguiti con grande rapidità. E' difficile giudicare se sia stato un bene o un male, però è insensato lamentarci del presente e confrontarlo con gli aspetti del passato. Non si può negare che oggi stiamo vivendo una crisi profonda che si presenta sotto diverse forme: economica, sociale, ambientale, interculturale ecc, problemi che si possono ricondurre, in ultima analisi, ad una crisi di valori. Infatti questa crisi consiste nel sovvertimento dell'ordine di quelle virtù etiche e morali che riteniamo essere innate nell'essere umano. Albert Einstein diceva: "Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati". Lamentarsi della società presente è comprensibile ma bisogna convenire che siamo tutti dipendenti da un sistema dal quale non riusciamo a liberarci. Siamo sinceri: chi di noi potrebbe fare a meno dell'auto, del cellulare, di internet e di tutte le comodità che abbiamo nelle nostre case? L'uomo è artefice del proprio destino e quindi dobbiamo prendere atto della situazione in cui ci troviamo e riformare la società partire dalle nostre scelte: sentiamoci responsabili del mondo in cui viviamo. "Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo" esortava Gandhi. Speriamo bene. Fernanda Un buon motivo
Nell’antica Roma si verificavano molto spesso crolli di edifici e di abitazioni popolari, con morti e feriti, sia per la mediocrità dei materiali usati che per l’eccessiva altezza degli edifici stessi, cause dovute entrambe all’ingordigia di guadagno degli speculatori, che non ci penavano due volte pur di arricchirsi a dismisura. Allarmato da tale circostanza, l’Imperatore Augusto emanò allora una legge con la quale proibì di superare in altezza i 70 piedi, pari a circa 21 metri. Stranezze
L’albero del viaggiatore è una pianta originaria delle isole africane ma oggi diffusa in vari paesi tropicali, che ricorda nell’aspetto le palme: ha infatti un fusto cilindrico, in cima al quale si apre un ventaglio di larghe foglie. il nome con cui è nota deriva probabilmente dal fatto che nelle guaine delle sue foglie si raccoglie e conserva a lungo l’acqua piovana, utilizzabile dai viandanti per dissetarsi. El Ranatt
Il mestiere del ranatt, ossia del venditore di rane, era un mestiere stagionale. Nella stagione favorevole il ranatt catturava nei corsi d'acqua attorno a Milano le rane per poi venderle in città, dove erano molto richieste e considerate una prelibatezza. Qualche venditore scorretto spacciava rospi per rane. Allora le rane erano grassocce, costavano poco o nulla, era il mangiare dei poveri. Oggi è la carne più costosa che ci sia. Ma il mestiere è andato scomparendo col tempo. |
A Natal hin tucc fradej..…ma a san Steven tiren già foeura i cortej.
Questo grossolano proverbio milanese vuole fotografare l’animo rissoso del milanese di periferia, specialmente di coloro che abitavano al Ticinese, o sui Navigli, in uscita dalla città. Costui non è proprio uno stinco di santo: a Natale si sospendono le “ostilità” con chicchessia, ma solo per il giorno della festa. Poi torna tutto come prima. Il detto nasce soprattutto nei quartieri della povera gente, che non aveva da spendere, nemmeno a Natale, qualche spicciolo per la propria famiglia. E allora metteva in bella mostra l’unica attività di cui era capace. Ma, beninteso, solo dopo le feste di Natale! |
Chi laura gha’ una camisa...…e chi fa nagott ghe n’à dò.
È il classico rimprovero-proverbio che veniva usato per qualificare coloro che sbandieravano grandi ricchezze e quindi non avevano bisogno di lavorare: Milano contava un buon numero di famiglie ricchissime. Ma veniva usato anche per coloro che non mostravano grande interesse per il lavoro, i cosiddetti “faniguttùn” e che quindi passavano le loro giornate nell’ozio più completo, “rivestendole” di impossibili occupazioni a cui nessuno più credeva. Costoro facilmente riuscivano a sbarcare il lunario, se la cavavano sempre. Sembravano ricchi ma di fatto non lo erano. Vendevano solo frottole! |
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