Articoli del giornalino marzo/aprile 2018
L’esperienza della fede La risurrezione è il centro dell’esperienza della fede dei primi cristiani, ma è difficile parlarne: non è una esperienza che riguarda i sensi, non è il frutto di una riflessione. Risurrezione è qualcosa che viene da Dio, è opera di Dio, e noi possiamo riconoscere questo mistero solo attraverso la fede, confidando e credendo che Dio può arrivare là dove noi non possiamo. Ma allo stesso tempo, anche se la risurrezione non dipende da noi, tutta la nostra vita è un anelito di resurrezione, contiene la speranza di una vita piena al di là dei nostri limiti e delle nostre imperfezioni. Così la risurrezione che la Pasqua annuncia è il mistero che interpreta tutta la vita di Gesù e insieme può illuminare tutta la nostra vita. La Scrittura ci conduce attraverso la scoperta del senso della risurrezione di Gesù e dei frutti che questa produce nella nostra vita.
Credere nella risurrezione di Cristo Gesù significa vederla come il compimento della presenza di Dio nella vita di Gesù, il compimento del piano di salvezza di Dio su tutta l’umanità. Di fatto chi crede in Gesù ottiene il perdono dei peccati, è riconciliato con Dio, è salvo. il cristiano battezzato è colui che entra nello stesso mistero di morte e risurrezione. Il vero significato della sua vita lo può scoprire solo a partire dal progetto di Dio, dalle “cose di lassù”, senza lasciarsi guidare dagli istinti terreni. Ma questo processo di risurrezione interiore è graduale, non accade in una sola volta, deve essere voluto e scelto liberamente da ciascuno. In questo modo, gradualmente, la risurrezione di Gesù che entrò in noi nel battesimo ci rende liberi dal modo di valutare le cose solo orizzontale e ci permette di vivere già ora l’attesa dell’incontro definitivo. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo. Sappiamo che per nessuno di noi è facile credere nella risurrezione; a volte ci chiediamo se non stiamo dando spazio a storie inventate, se non dovremmo occuparci d qualcosa di più concreto. Ogni giorno facciamo esperienza che, nonostante il battesimo, pensiamo e agiamo ancora molto condizionati dalle “cose di quaggiù”. Ma la risurrezione è il mistero di Dio che entra nella nostra carne e scava il posto per una speranza che non muore. Il giorno della nostra risurrezione è un giorno che il Signore fa. A noi è chiesto solo, come al discepolo amato, a Pietro, a Maria Maddalena, a Cornelio e tanti altri, di avere fede. Buona Pasqua a tutti: di amore, felicità, misericordia, perdono, e di quando più possiamo desiderare. Sia questo giorno l’inizio di un vero rinnovamento, di trasformazione in persone nuove, diverse. La segreteria |
Cibi esotici?
La moda di alimenti esotici, capaci (a parola) di integrare con vitamine e antiossidanti il nostro fisico super nutrito, porta ogni anno in passerella frutti, verdure, semi, bacche e germogli per i consumatori della nostra epoca. Ormai questi “miracolosi cibi” fanno bella mostra di sé sugli scaffali e nei banchi frigo di molti supermercati. A dispetto dellʼassenza di fondamenti scientifici, cʼè unʼampia scelta di questi alimenti salutistici che fanno concorrenza allʼofferta tradizionale. Pensavate che ci fosse solo il sale bianco da cucina? NO. Esiste il sale rosa dellʼHimalaya che arriva dalla miniera di Khewa nel Pakistan e contiene 84 oligoelementi (!) ma molteplici impurità. Poi cʼè il sale viola Kala Namak dellʼIndia dal sapore sulfureo, il sale nero di Cipro arricchito di carbone vegetale e quello grigio di Bretagna indicato per gli ipertesi. Di bacche ce ne sono pure di vari tipi. Le bacche di goji che provengono dal Tibet farebbero abbassare il colesterolo. In Europa abbiamo le bacche di Aronia che sono specifiche per ridurre la pressione arteriosa, invece le bacche di Maqui che provengono dalla Patagonia funzionerebbero su pelle e capelli. Dal Messico e dal Guatemala arrivano i semi di Chia, color grigionero che gonfiandosi nello stomaco aumentano il senso di sazietà e migliorano il transito intestinale. Ma le bacche di Acai, di colore blu, che provengono dal Sud America godono di grande fama perché sarebbero in grado di agire sulle cellule cancerose (!). Il Dipartimento di medicina sperimentale di Tor Vergata di Roma, dopo aver studiato la presunta efficacia di questi alimenti esotici, ha emesso sentenze dubitative, in considerazione anche del fatto che questi subiscono lunghi trasporti e periodi di conservazione in climi caldo-umidi che potrebbero rappresentare un rischio per la salute. Io non mi sono permessa di fare critiche o considerazioni personali su questo argomento, ma ho riferito solo quello che ho trovato attraverso le mie ricerche. Quindi, non mi permetterei mai di dissuadere coloro che fanno uso di questi prodotti esotici. Da parte mia, continuerò a seguire la nostra dieta mediterranea e Dio me la mandi buona. Fernanda |
Palazzo Marino/2
Palazzo Marino ha un «fratello minore» nel Parco del Ticino, nascosto tra le risaie e i campi di Ozzero, vicino ad Abbiategrasso.. Un segreto che il piccolo centro agricolo, distante anni luce dal prestigio di piazza della Scala, ha saputo celare con noncuranza. Per oltre 500 anni l’edificio è stato conosciuto come palazzo Centurione, dal nome della famiglia che ne divenne proprietaria a metà del Settecento. Fu proprio Tommaso Marino a farlo costruire a metà del Cinquecento come dimora di campagna. Una versione rurale, quindi, del sontuoso palazzo milanese che rispecchia a pieno le manie di grandezza di Marino. Lo spericolato banchiere genovese, all’epoca, fu uno dei maggiori protagonisti del mondo finanziario europeo. Nel 1550 ottenne il monopolio della fornitura di sale proveniente da Venezia per Milano e Genova e, prima di essere travolto dai debiti, si intestardì a voler edificare a Milano un palazzo che fosse il più bello della città: Palazzo Marino, appunto, per il quale fece arrivare da Perugia l’architetto Galeazzo Alessi. In effetti, anche quello di Ozzero, considerando il contesto in cui sorge, appare del tutto sproporzionato e segno della volontà di lasciare un segno tangibile della propria ricchezza. Fasti ormai relegati ai libri di storia perché oggi il palazzo è chiuso e abbandonato a se stesso. L’edificio di Ozzero ha ancora, al di sopra della porta d’ingresso, lo stemma con le onde del mare che contraddistingueva le proprietà di Marino. Lo stesso stemma gentilizio che un tempo faceva bella mostra di sé sull’ingresso dell’attuale municipio milanese. Il banchiere Marino fece costruire il palazzo come base per gestire le proprietà che aveva nella zona, compreso il patrimonio fondiario del monastero cistercense di Morimondo di cui fu affittuario generale per quasi vent’anni. A Ozzero, però, Marino rimase meno di dieci anni. Il tracollo finanziario lo spinse ad affittare il palazzo per metterlo a reddito. Passato a metà del Settecento alla famiglia Centurione, nel corso dei secoli il palazzo di Ozzero ha subito il degrado e l’incuria del tempo. Oggi è di proprietà di un privato ma è chiuso, le facciate sono circondate dalle erbacce. All’interno, la grande sala in cui troneggia il camino sovrastato dallo stemma dei Marino è vuota, i muri sono imbrattati dalle scritte di qualche vandalo entrato solo per fare danni. (da una ricerca di) Daniele |
Il melograno
Gesù saliva faticosamente la via del Calvario. Dalla Sua fronte trafitta di spine cadevano gocce di sangue. Gli Apostoli, timorosi, seguivano Gesù da lontano, per non farsi vedere; ed uno di essi, quando il triste corteo era passato, raccoglieva i sassolini arrossati, dal sangue benedetto di Gesù e
li metteva in un sacchetto. A sera gli Apostoli si radunarono tutti tristi nel Cenacolo; l'apostolo pietoso trasse di tasca il sacchetto per mostrare ai compagni le reliquie del sangue di Gesù; ma nel sacchetto trovò un frutto nuovo, dalla buccia spessa ed aspra dentro alla quale erano tanti chicchi,
rossi come il sangue di Gesù. Era nato il melograno.
Gesù saliva faticosamente la via del Calvario. Dalla Sua fronte trafitta di spine cadevano gocce di sangue. Gli Apostoli, timorosi, seguivano Gesù da lontano, per non farsi vedere; ed uno di essi, quando il triste corteo era passato, raccoglieva i sassolini arrossati, dal sangue benedetto di Gesù e
li metteva in un sacchetto. A sera gli Apostoli si radunarono tutti tristi nel Cenacolo; l'apostolo pietoso trasse di tasca il sacchetto per mostrare ai compagni le reliquie del sangue di Gesù; ma nel sacchetto trovò un frutto nuovo, dalla buccia spessa ed aspra dentro alla quale erano tanti chicchi,
rossi come il sangue di Gesù. Era nato il melograno.
MTE A VICENZA
Il 30 novembre, giorno dell'onomastico e compleanno di Andrea Palladio eravamo a Vicenza ad ammirare le opere di questo nostro grande architetto. Palladio (1508 - 1580) ha arricchito con i suoi lavori la città e la zona veneta circostante. Sulle vie del centro storico si affacciano i bei palazzi progettati da lui e costruiti con materiale povero ma abbelliti da fregi e colonne di stile classicheggiante. Sembrava di passeggiare in un'epoca passata! Sicuramente il Teatro Olimpico è un capolavoro palladiano: è un teatro stabile coperto, il primo in Europa a riprendere l'usanza dei teatri coperti di epoca romana, voluto dagli Accademici vicentini per la messa in scena di opere classiche. Leggi tutto... |
Un bel viaggio
Cioè Napoli, Salerno e reggia di Caserta. A Napoli, appena iniziato il nostro percorso, ci ha accolti la veduta del Golfo col Vesuvio sullo sfondo, quasi incorniciato dall' arco del famoso “Carosello" pubblicitario. Subito dopo la vastità di piazza Plebiscito, neoclassica, che ricorda l' annessione di Napoli al regno italico; poi una veloce visita al Maschio Angioino, fortezza sul mare, fatta costruire da Carlo I d' Angiò sul finire del XIII sec. Percorrendo alcune vie della città abbiamo incrociato la Galleria Umberto I, quasi una fotocopia della nostra e siamo scesi in una stazione della metropolitana veramente singolare per la struttura modernissima, direi avveniristica e il sapiente gioco di luci che la fanno apparire quasi uno spazio siderale. Leggi tutto... |
Il Bel paese
Storia di un piccolo libro Proprio così, cari amici. Oggi voglio raccontarvi la storia di quel piccolo libro da me rinvenuto frugando tra le cose ormai dimenticate su una bancarella di robivecchi in un mercatino di paese. Era proprio malandato, e chissà da quale soffitta poteva essere sortito. Le pagine ingiallite dal tempo e i quinterni scuciti, già mi palavano dei molti anni e delle molte mani che dovevano aver sfogliato quello che era solo un piccolo mucchietto di carta vecchia, buona per il macero. No, non era un antico volume di incunaboli né un manoscritto proveniente da qualche antico monastero; era solo un volumetto, una vecchia brossura in edizione economica e con alcune pagine ancora intonse e malandate, ma l’emozione più grande fu quando rigirandolo tra le mano ne lessi il titolo e il nome dell’autore. IL BEL PAESE di Antonio Stoppani, edito a Milano per l’editore Cagliari nel 1910. Uno dei titoli più famosi della letteratura italiana. Pensate amici, era la 58ma edizione! Come non pensare a chissà quanti italiani impararono a conoscere per la prima volta qualche cosa della loro bella Italia! Mi allontano con il mio piccolo tesoro per cercare una panchina all’ombra, faceva parecchio caldo quel giorno, dove comincio a sfogliare le prime pagine (scritte peraltro con un carattere tipografico molto piccolo) e sforzando non poco la vista, riesco a leggere alcuni brani qua e là, quanto basta per restare incantato dalla prosa dell’autore che è molto più vicina alla poesia, e che non potrei definire in altra maniera che meravigliosa! Ma il mio occhio di ex rilegatore non può non accorgersi di quanto il mio piccolo tesoro abbia bisogno che ci metta mano per un possibile restauro, prima che qualcuno lo butti nella spazzatura. Me lo studio per benino e, dopo avere trovato i materiali giusti alla bisogna, ho iniziato il lavoro salvando, il più possibile della sua veste originale e della sua età. Non ho voluto nemmeno farlo rifilare perché, così facendo, mi sarebbe parso di togliere l’anima e lo spirito del suo tempo. Ecco, ora a lavoro terminato, me lo riguardo con un sorriso di soddisfazione e penso che forse ne sarebbe contento anche l’autore. Ora, di tanto in tanto, non resistendo alla tentazione, lo prendo e me lo coccolo tra le mani, prima di iniziare a sfogliarlo e leggerne emozionato qualche pagina. Gianfranco Perbacco!
Lo Stromboli è uno dei pochissimi vulcani in ininterrotta attività: per lo più essa si manifesta con esplosioni, ma frequente è anche l'uscita di lava, che scende fino al mare. |
Settimana sociale
Sarà certamente una mia manchevolezza non sapere che esiste la “Settimana sociale dei cattolici italiani”. Ho però saputo per tempo che a Cagliari dal 26 al 29 ottobre scorso si sarebbe svolta la 48ª “Settimana sociale”. Ho così avuto modo di seguirne le fasi salienti a partire dalla cerimonia inaugurale trasmessa in diretta televisiva su “Canale 2000” e poi gli interventi registrati su “You Tube”. La cosa principale da segnalare è che, per la prima volta, è intervenuto in diretta il Papa con un messaggio della durata di 13 minuti. Un più breve messaggio è stato inviato dal presidente della Repubblica Mattarella e, il 28 ottobre, è intervenuto personalmente il presidente del Consiglio Gentiloni con un discorso di 31 minuti. Il tema della “48ª Settimana” è stato: “Lavoro: libero, partecipativo, solidale”. Ecco la sintesi del messaggio di papa Bergoglio: Non tutti i lavori sono degni di tale nome; non lo sono quelli che servono per costruire armi, quelli con lo sfruttamento minorile, quello che discrimina le donne, quello in nero e quello precario. Non lo è neppure quello fatto a mezzo di appalti al massimo ribasso. Il vero lavoro deve possedere due virtù: - servire le persone, - formare comunità in cui la comunione prevale sulla competizione. Gentiloni ha invece detto: lavoro libero vuol dire abolizione del caporalato e riduzione del precariato. La quarta rivoluzione industriale porterà con sé molte incognite e sarà necessario avere più creatività e cultura. Partecipazione e solidarietà significa sostegno alle imprese sociali e a quello che include giovani e donne. Citando Primo Levi conclude dicendo: amare il proprio lavoro costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Che cosa si può dedurre da queste affermazioni? Per prima cosa sono andato a vedere quando si sono tenute le precedenti 47 “Settimane”. Ho così scoperto che sono iniziate nel 1907 su iniziativa del professor Giuseppe Toniolo, docente all’Università di Pisa che per la sua opera è stato beatificato nel 2012. Alterne le vicende che, nel corso di 110 anni, hanno segnato la storia delle “Settimane sociali”, contraddistinte da cicli annuali, da interruzioni e riprese. Sta di fatto che è indiscutibile merito del professor Toniolo l’aver allertato la chiesa cattolica sui cambiamenti in corso nella società industriale. E’ poi interessante andar a vedere di cosa si sono occupati i partecipanti alle “Settimane”. C’è di tutto; dall’organizzazione sindacale, a quella delle imprese; l’economia e l’educazione, la famiglia e le migrazioni. Detto in due parole, quello che ha fatto il professor Toniolo per il cattolicesimo è stato un nuovo “modello di riferimento” e, in una parola, un nuovo “paradigma” . Tale nuovo modello cambia la visione individualista della chiesa in una visione più sociale. Anche papa Bergoglio nel suo intervento propone un nuovo modello sociale di lavoro; quello che deve formare comunità in cui “la comunione prevale sulla competizione”. Enrico |
Vincent!
Ovvero: Vincent van Gogh: tra il grano e il cielo. Grande mostra allestita a Vicenza per questo grande pittore, conosciuto in tutto il mondo. Abbiamo incontrato una bravissima guida che ci ha preso per mano e, piano piano, ci ha fatto conoscere, capire e apprezzare la sua pittura particolare, dal tratto unico, dai colori intensi, non riconoscibili in nessuna categoria; giunta a noi dopo gli impressionisti, non fu apprezzata dai critici d’arte d’allora in quanto non era allineato ai gusti dell’epoca. Vincent viveva miseramente, il suo unico svago erano le lettere che (a migliaia) scriveva a suo fratello Theo, al quale raccontava tutta la sua vita in giro nel sud della Francia. Lavorava, lavorava sempre, di giorno e di notte, dimenticandosi di mangiare, bevendo solo assenzio e vino. Era molto solo, viveva con la passione farnetica del suo lavoro: per cui si ammalò. La sua vita fu tragica perché da un uomo fragile, introverso, con la ricerca continua di una vita interiore e la sua angoscia lo portavano alla ricerca di un’altra vita. questo lo esprimeva nei suoi lavori, nella vita dei disperati che anelavano ad un mondo migliore. Ma divenne folle. Descriveva la vita degli umili contadini che lavoravano la terra, coltivando le patate: celebre il quadro dei mangiatori di patate, e di questi soggetti ne ripeteva a centinaia. Famosi sono i suoi campi di grano, i cieli azzurri, i girasoli dal colore giallo intenso, che si trasformavano nel rosso dei papaveri, gli alberi spogli e contorti cehe si stagliavano verso il cielo. Famosissimo anche il suo 2Notte stellata”, perché con la sua potente immaginazione va oltre il limite del vero, del vivo, e dipinge il quadro rischiarato da mille comete che girano in tondo, luminose, e quindi il tutto appare quasi innaturale. Vincent si è suicidato con un colpo di pistola (si era già ferito ad un orecchio durante una lite con l’unico amico Gaiguin, ma ci ha lasciato un’eredità straordinaria: centinaia di disegni in bianco e nero, acquarelli e pitture a olio. Certo la sua pittura fa pensare a cosa siamo, cosa facciamo, dove andiamo. Il gruppo era silenzioso e attento come non mai, eravamo emozionati perché dalla storia di un pittore abbiamo conosciuto anche la vita di un uomo, di un uomo disperato ma immortale. Ero turbata, malinconica ma felice. Lydia |
Ah, che mondo!
I tradizionali giochi “saltati” che hanno fatto divertire generazioni di bambini all'aperto, in spazi ristretti, tra cortili, piazzette e giardinetti, sono ancora alleati validissimi. A volte basta poco per improvvisare una gara divertente tra qualche amichetto offrendo allo stesso tempo al bambino l'occasione di migliorare il suo senso dell'equilibrio e dello spazio. I bambini continuano a giocare al gioco del “mondo” senza sapere di ridare vita ad un gioco iniziatico, il cui scopo è di penetrare e riuscire a tornare fuori da un labirinto; giocando a “mondo” i bambini scendono simbolicamente agli inferi e tornano sulla terra." Migliaia di anni fa, i soldati romani giocavano a “mondo” per testare la propria forza e velocità, saltando per 30 m con carichi pesanti! Oggi questo divertimento è un gioco da cortile per bambini e adulti che hanno voglia di giocare…come si faceva una volta, con grande semplicità ma con lo stesso impegno. Chi di voi non ha mai giocato a “mondo”? E i vostri bimbi? Avete mai provato a giocare insieme a loro? Gli ingredienti di questo gioco? Una bella giornata di sole, un pavimento abbastanza liscio (i cortili o i marciapiedi dei nostri paesi vanno benissimo), dei gessetti colorati e qualche sasso! E in questo gioco così semplice le cose che possono imparare anche i bimbi più piccoli sono davvero molte: rispettare le regole del gioco, aspettare il proprio turno, lanciare il sassolino con precisione, saltare con una gamba sola o con due, imparare a stare in equilibrio…E cosa non da poco anche i più piccini si avvicinano al mondo dei numeri imparando a contare senza nemmeno accorgersene! Qualche vecchia scuola, specialmente nei borghi più piccoli, dove i bambini si divertivano con poco (aiutati e incoraggiati dalle loro maestre) porta ancora sulla pavimentazione del cortile qualche graffito indicante questo gioco; ciò significa che questo metodo era usato dalle insegnanti per fa conoscere ai piccoli alunni il modo per imparare a far di conto. Basta davvero poco per divertirsi eppure troppo spesso ce ne dimentichiamo facendoci prendere dalla frenesia dell’operosità! (da una ricerca di) Lucia |
Colomba pasquale
Per i milanesi, e i lombardi in genere, Pasqua vuol dire colomba. La colomba lombarda in quanto a fama è seguita subito dopo da quella siciliana ed entrambe sono state ufficialmente inserite nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T). Ma dove ha origine questo dolce gustoso? Ci sono alcune leggende che farebbero risalire la colomba pasquale addirittura all’epoca longobarda. La prima narra che re Alboino durante l'assedio di Pavia (metà VI secolo) avrebbe ricevuto, in segno di pace, un pan dolce a forma di colomba. Poi Pavia capitolò e lui ne fece la sua capitale. La seconda invece è legata alla regina Teodolinda e al santo abate irlandese, San Colombano. San Colombano al suo arrivo a Bobbio (PC) attorno al anno 614 fu ricevuto dai sovrani longobardi (Teodolinda e Agilulfo) e invitato con i suoi monaci a un sontuoso banchetto, ricco di selvaggina. Benché non fosse venerdì egli rifiutò quelle sostanze troppo ricche servite in periodo di penitenza. La regina Teodolinda, non comprendendo il rifiuto di Colombano, si offese; ma ingegnosamente quest’ultimo riuscì a cavarsela affermando che avrebbero mangiato quelle pietanze dopo averle benedette. Detto fatto: Colombano con la mano destra fa il segno della croce sopra le succulente carni rosolate e queste d’un tratto si trasformano in delicate colombe di pane, dolci e bianche. La regina, sbalordita, comprese la santità dell’abate e donò il territorio di Bobbio dove nacque l’Abbazia di San Colombano. Da allora la colomba bianca divenne anche il simbolo iconografico del Santo e viene sempre raffigurata sulla sua spalla. Altre versioni rivendicano la creazione del dolce pasquale risalente alla Genesi o alla battaglia di Legnano del 1176, quando tre colombe si posarono sopra le insegne lombarde e secondo il condottiero Carroccio portarono fortuna al suo esercito che infine sconfisse le truppe di Federico Barbarossa.
p.Franco
Per i milanesi, e i lombardi in genere, Pasqua vuol dire colomba. La colomba lombarda in quanto a fama è seguita subito dopo da quella siciliana ed entrambe sono state ufficialmente inserite nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T). Ma dove ha origine questo dolce gustoso? Ci sono alcune leggende che farebbero risalire la colomba pasquale addirittura all’epoca longobarda. La prima narra che re Alboino durante l'assedio di Pavia (metà VI secolo) avrebbe ricevuto, in segno di pace, un pan dolce a forma di colomba. Poi Pavia capitolò e lui ne fece la sua capitale. La seconda invece è legata alla regina Teodolinda e al santo abate irlandese, San Colombano. San Colombano al suo arrivo a Bobbio (PC) attorno al anno 614 fu ricevuto dai sovrani longobardi (Teodolinda e Agilulfo) e invitato con i suoi monaci a un sontuoso banchetto, ricco di selvaggina. Benché non fosse venerdì egli rifiutò quelle sostanze troppo ricche servite in periodo di penitenza. La regina Teodolinda, non comprendendo il rifiuto di Colombano, si offese; ma ingegnosamente quest’ultimo riuscì a cavarsela affermando che avrebbero mangiato quelle pietanze dopo averle benedette. Detto fatto: Colombano con la mano destra fa il segno della croce sopra le succulente carni rosolate e queste d’un tratto si trasformano in delicate colombe di pane, dolci e bianche. La regina, sbalordita, comprese la santità dell’abate e donò il territorio di Bobbio dove nacque l’Abbazia di San Colombano. Da allora la colomba bianca divenne anche il simbolo iconografico del Santo e viene sempre raffigurata sulla sua spalla. Altre versioni rivendicano la creazione del dolce pasquale risalente alla Genesi o alla battaglia di Legnano del 1176, quando tre colombe si posarono sopra le insegne lombarde e secondo il condottiero Carroccio portarono fortuna al suo esercito che infine sconfisse le truppe di Federico Barbarossa.
p.Franco
Andeghee
Tratto dal linguaggio milanese molto antico, questo è un termine si fa comunemente derivare dal celtico "andheghe" che significava: biancospino. Questo era il tipo di cespuglio che allora recingeva Milano al posto delle mura. Termine prettamente cittadino, in dialetto milanese “andeghee” è voce scherzosa che significa a tutt’oggi prima antiquario, venditore di cose vecchie, inutili, ma successivamente antiquato, nel senso di retrogrado. Un tempo in via Andegari c'erano i palazzi dell'antica omonima casata; più di un secolo fa vi era la sede di un circolo detto degli "Andeghee", formato da un gruppo di signori anziani, cocciutamente tradizionalisti, che erano noti per le loro idee e i loro costumi superati; il bello era che non accettavano per nessun motivo di aggiornarsi. Non volevano stare al passo con i tempi.
Tratto dal linguaggio milanese molto antico, questo è un termine si fa comunemente derivare dal celtico "andheghe" che significava: biancospino. Questo era il tipo di cespuglio che allora recingeva Milano al posto delle mura. Termine prettamente cittadino, in dialetto milanese “andeghee” è voce scherzosa che significa a tutt’oggi prima antiquario, venditore di cose vecchie, inutili, ma successivamente antiquato, nel senso di retrogrado. Un tempo in via Andegari c'erano i palazzi dell'antica omonima casata; più di un secolo fa vi era la sede di un circolo detto degli "Andeghee", formato da un gruppo di signori anziani, cocciutamente tradizionalisti, che erano noti per le loro idee e i loro costumi superati; il bello era che non accettavano per nessun motivo di aggiornarsi. Non volevano stare al passo con i tempi.
Musica maestro!
Quand che Milan a l’era dei milanes, ai temp di temp che n’emm perdüü memoria…iniziava così una deliziosa poesia sulla città di Milano ma soprattutto su “certi” suoi abitanti. O meglio, su quegli abitanti che hanno scelto i tetti delle case come dimora: una moltitudine infinita di gatti, di ogni colore, grandezza e provenienza. Ma anche (si può dire così?) di ogni estrazione sociale, tanto che si riusciva un tempo a riconoscere, avendo una certa competenza, quegli animali provenienti dalle case dei ricchi e quelli totalmente randagi. Questi mangiavano bocconcini prelibati, quegli altri raccoglievano ciò che trovavano. Si vedevano camminare con una certa lentezza sui tetti delle case, scattare fulmineamente all’improvviso per cercare di acchiappare una certa preda; li trovavi a poltrire sul divano in attesa di qualcosa o qualcuno che noi neanche immaginiamo. Sono animali che si fanno amare, stanno bene con gli altri anche se ci tengono molto alla loro libertà e indipendenza. Si sentono, per loro stessa costituzione, un poco “snob”. Fino a un certo punto. Già perché, quando giunge per loro in tempo dell’amore, per noi “umani “ sono guai. Gatti che corrono all’impazzata, qui e là, frequenti battaglie, sparizioni, violenti miagolii, specialmente nelle ore notturne. Sui tetti delle nostre case si tengono “concerti” di ogni genere, piuttosto lunghi; a noi la voce sembra sgradevole, ma vi assicuro che non c’è musica più autentica di questa. Sembrano i soliti “versacci”, ma certamente sono tutti pezzi “originali”, non ce n’è uno uguale all’altro. Senza orchestra, senza strumenti, solo con la propria voce, sembra di essere tutti i giorni alla Scala; il tema è sempre il medesimo, cambia solo (qualche volta) l’intonazione e il volume. Passato un po’ di tempo, concluse le varie battaglie (con vincitori e vinti e, ahimè, con qualche ferito), tutto ritorna come prima, ci si guarda dall’alto in basso: i gatti tornano a fare le fusa, si nascondono, compaiono improvvisamente, sonnecchiano. Non pianificano più la loro caccia, come fonte di sostentamento, sia notturna che diurna. Non cercano più topolini e lucertole. Ormai mangiano tutti troppo bene! Vogliono subito la loro “sbobba”, piagnucolano e non ci ringraziano mai. Cercano solo il nostro affetto. Mondo gatto! Chiara |
Dàgh una petenàda
Quando si perde la pazienza, quando una persona non vuole ragionare, quando vuole agire per ripicca e vuole fare sempre ciò che vuole, quando si vuol “calmare” qualcuno troppo agitato, si ricorre spesso anche alle maniere “forti”, dispensando a piene mani scappellotti, calci, sberle, ecc.; ma non sempre si ottiene il risultato sperato. Contro l’ostinazione, quasi sempre per futili motivi, non ci sono però risoluzioni valide: e allora dágh una petenáda, per tentare una conclusione. Ma spesso il nostro detto veniva applicato a chi voleva essere “per forza” nemico di qualcuno, ma non ne avena le energie; non era raro veder usare la violenza gratuita piuttosto che il dialogo! L'aqua la fa mal la bev dumà la gent de l’uspedal! Sembra (ma in effetti lo è, usato persino da vari cantastorie che andavano elemosinando qualche moneta in cambio delle proprie canzoni) un inno al vino e ai suoi bevitori, che si “proclamava” specialmente nelle piazze, nelle numerose osterie milanesi e quelle lungo il corso dei Navigli, tanto da arrivare ad affermare che la peggior condanna per un uomo era quella di non potere bere più, trasformandosi in ammalato cronico, abitante perenne di qualche ospedale, amico dei dottori, veri o presunti. Il vino come medicina sembrava quasi solo una scusa per i numerosi bevitori che giravano per le osterie della città e nei dintorni. Tajapagn
Si sa che per istinto la gente spettegola, nel tempo libero, bonariamente. E’ inteso come ‘taglia i panni addosso’. E’ però cattivo e mediocre: è per colui che ha il gusto di far apparire gli altri un niente. Ha sempre da dire, ma in modo cattivo. Il classico da mandare via i pee”. Per non dire di peggio…! |
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