Articoli del giornalino gennaio / febbraio 2022
UN SOGNO NECESSARIO
Il 13 novembre si è conclusa Glasgow la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26). Tutti i centonovantasette paesi parte-cipanti hanno sottoscritto il comunicato finale: tutti d’accordo sul mantenere il riscaldamento globale sotto un grado e mezzo dai livelli preindustriali ma, su come e quando raggiungere questo obbiettivo, le opinioni divergono. “La Cop26 è stato un bla, bla, bla" ha detto Greta Thunberg dando voce alle preoccupazioni del mondo ambientalista e di tanta gente comune. “I testi approvati dalla Cop26 sono un compromesso e riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo oggi" ha detto, invece, il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres, sottolineando che gli accordi sono un passo importante ma che la "collettiva volontà politica non è stata abbastanza per superare le profonde contraddizioni". In verità nel documento finale è stato fatto qualche passo avanti rispetto al passato. Si è infatti fissato per il 2030 un taglio del 45% delle emissioni di CO2 rispetto al 2010 e, conseguentemente, si è richiesto ai singoli stati di aggiornare i loro impegni di decar-bonizzazione entro il 2022. Vi è inoltre la prima inclusione in assoluto di un impegno a limitare l'uso del carbone e quello di offrire un maggiore sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo. Un commento a quanto è accaduto non è semplice e, quindi, mi limito ad alcune considerazioni che possono essere utili per ulteriori riflessioni e approfondimenti. Le emissioni di CO2 andrebbero anzitutto ridotte nei paesi che sono i maggiori emettitori (circa il 70% del totale): nell’ordine Cina, USA, India, Unione Europea e Russia. Tuttavia, mentre negli ultimi anni le emissioni di USA e Unione Europea sono diminuite e quelle della Russia si sono stabilizzate, quelle di Cina e India sono invece considerevolmente aumentate. Questi paesi, infatti, hanno un elevato tasso di crescita e coprono l’aumento del fabbisogno energetico con combustibili fossili che hanno un costo minore rispetto alle fonti rinnovabili. Di qui si comprendono le resistenze ad abbandonare l’uso del carbone in tempi brevi: “i sacrifici dovete farli anzitutto voi” dicono India e Cina all’Occidente. Senza considerare che la riduzione di emissioni dell’Occidente è dovuta in parte al trasferimento di molte attività produttive proprio in Cina e in India. Un secondo punto importante è che le emissioni di gas serra e, in particolare quelle di CO2, interessano vari campi delle attività umane: non solo la produzione di energia e le attività industriali ma anche i trasporti e la attività agricole e, in particolare, la zootecnia. Queste semplici considerazioni ci portano a dire che il problema del riscaldamento globale non è risolvibile soltanto affidandosi alla scienza e al progresso tecnologico ma che richiede, innanzitutto, un profondo cambiamento dell’economia e della finanza e anche dei nostri stili di vita. Credo, altresì, che sia fuorviante parlare di decrescita felice; il processo di cambiamento richiederà tempo e fatica e si intersecherà con tematiche quali l’accessibilità alle materie prime e l’equa distribuzione dei beni. Come tutte le grandi sfide nella storia, insomma, richiederà un cambiamento culturale che poggi su valori condivisi. Come ha ben compreso papa Francesco che, nel 2020 ad Assisi, ha lanciato “L’economia di Francesco”: gruppi di lavoro permanenti che, nell’elaborare un nuovo paradigma economico e nell’indicare soluzioni concrete, mettono la fraternità alla base delle scelte operate. Nuove idee nascono soltanto da uomini nuovi. Oggi l’umanità si trova davanti alla sfida più grande dalla sua nascita. Nessun paese può pensare di tirarsi fuori o di salvarsi da solo come del resto ci sta insegnando anche la pandemia del Covid in atto. Tracciare nuove vie e pensare non soltanto all’oggi ma immaginare il futuro. Questo è e sarà il compito alto della politica: un sogno? Forse ma un sogno necessario. Non per nulla papa Francesco, il 21 novembre nella Messa celebrata in occasione della Gmg diocesana, ha esortato i giovani ad “avere la capacità di sognare e di essere costruttori in mezzo alle macerie, coraggiosi nell’andare controcorrente, senza scorciatoie, per immaginare soluzioni coraggiose ai problemi”. << I have a dream >> disse Martin Luther King a Washington nel 1963 e fu l’inizio di un arduo ma luminoso cammino. Pietro Pinacci |
RICORDI DI UNA VACANZA DI FINE ESTATE
Le caratteristiche della penisola sorrentina si sono subito rivelate sulla strada alta e tortuosa che da Napoli porta a Sorrento offrendo notevoli scorci panoramici. I monti Lattari, che ne costituiscono l’ossatura, formano un bastione roccioso tagliato da stretti valloni che creano piccoli spazi sul mare. Gli insediamenti stanno allo sbocco di questi valloni e le abitazioni si accatastano sugli erti pendii. La vegetazione è esuberante: agrumi, ulivi, viti sui terrazzamenti più vicini al mare, sostenute da muretti di pietra e, più in alto, rocce, macchia mediterranea e boschi di castagni dai ricci semiaperti che mostravano già i loro frutti grossi e lucidi. Sorrento invece è distesa su un bastione di tufo alto sul mare. Scendendo per una stretta e ripida strada, costruita su uno di quei valloni che tagliano la montagna, si arriva Marina Piccola dove c’è il porto. Attraverso ombrosi vicoli e scalette si raggiunge Marina Grande dove ci sono stabilimenti balneari un po’ particolari perché, data l’esiguità della spiaggia, le attrezzature sono poste su lunghi pontili che si protendono in acqua. Naturalmente gli eleganti alberghi, alti sulla costa e immersi in ombrosi giardini come quello dove amava soggiornare Caruso, hanno l’ascensore per scendere al mare. Anche per i turisti che non vogliono stancarsi c’è l’ascensore nel bellissimo giardino della Villa Comunale che offre indimenticabili vedute sul golfo di Napoli Il centro di Sorrento, dove non mancano interessanti luoghi storici e artistici, è formato da un reticolo di piccole vie perpendicolari tra loro e fitte di negozi di oggetti di artigianato, ceramiche, gioielli e abbigliamento in lino oltre ai moltissimi dedicati al prodotto tipico di questa zona: i limoni. Qui ti offrono gli assaggi dei vari tipi di Limoncello, di biscotti e cioccolatini ripieni. Il verde e il giallo, i colori dei limoni riprodotti su tovagliette, presine, borse e ceramiche rendono colorate e vivacissime vetrine e bancarelle. Nessuno di noi ha resistito a questi richiami; quando siamo ripartiti tutti avevamo una borsa in più, comprata magari negli stessi negozi, piena di queste golose tentazioni. Il nostro albergo, un po’ fuori Sorrento, era dotato di un vasto parco e di una grande piscina dove, nei giorni liberi dalle escursioni, i più tranquilli degli “anziani d’Egitto” hanno potuto rilassarsi mentre i più dinamici si sono spinti nelle località più vicine come Positano o Pompei. La prima visita è stata alla millenaria abbazia benedettina di Cava dei Tirreni, immersa nel verde e arroccata alla parete rocciosa. Il piccolo convento, fondato da Sant’Alferio, nobile longobardo, intorno alla grotta dove si era ritirato a fare vita eremitica, nei secoli si è ingrandito enormemente diventando una grandiosa abbazia e un centro di cultura ricco di opere d’arte di diverse epoche: dai mosaici e sarcofagi romani a un Crocefisso di scuola senese. Altrettanto ricca di scorci paesaggistici è la parte meridionale della penisola cioè la costiera amalfitana. Abbiamo visto dall’alto gli scogli Li Galli che, secondo la tradizione, sarebbero il luogo dove Ulisse, saldamente legato all’albero della nave, riuscì a ascoltare senza danno il canto delle Sirene mentre i compagni remavano con le orecchie tappate di cera. Abbiamo ammirato Amalfi col suo splendido Duomo che domina la piazza dall’alto della sua monumentale scalinata. Non solo nei vicoli ombrosi fitti di turisti ma anche dal mare con una breve gita in barca abbiamo capito come gli esigui spazi di terra tra le pareti rocciose e l’acqua abbiano spinto gli abitanti a tentare le vie del mare da cui trassero prosperità e stimoli culturali rendendo celebre nei secoli X e XI la più antica delle nostre Repubbliche Marinare. Siamo poi arrivati a Ravello, posto su una terrazza rocciosa a 350 metri sul mare su una strada così stretta e tortuosa che ci ha fatto veramente ammirare l’abilità del nostro autista nell’incrociare e sfiorare senza danno i veicoli che ci venivano incontro. Il borgo, con i verdi giardini e le architetture dalle influenze moresche, ci è apparso come un luogo incantato e silenzioso. Proprio qui, nei giardini di Villa Rufolo, Richard Wagner trovò l’ispirazione per la sua scenografia del “giardino incantato” di Klingsor nell’opera Parsifal. Non poteva mancare una giornata a Capri, raggiungibile in pochissimo tempo con l’aliscafo dal porto di Sorrento, che non è un’isola vulcanica come Ischia e Procida ma un vero prolungamento della penisola sorrentina. Abbiamo dedicato la mattinata ad Anacapri, il secondo centro dell’isola, dividendoci tra la passeggiata panoramica che porta alla “scala fenicia”, antico collegamento con Capri, la villa di Axel Munthe con lo splendido giardino e le statue, le viuzze tra le case bianche immerse nel verde e la salita in seggiovia al Monte Solaro, il punto più alto dell’isola, da cui il panorama è veramente eccezionale. Nel pomeriggio non poteva mancare la passeggiata nelle eleganti vie di Capri, sia indugiando davanti alle splendide vetrine che raggiungendo i punti panoramici come i “giardini di Augusto” o il belvedere di Tragara, davanti ai Faraglioni e sia riposando presso gli affollati caffè della “piazzetta-salotto” famosa in tutto il mondo. Anche il giorno della partenza ci ha offerto momenti molto interessanti: il giro panoramico in bus che ha toccato i punti più famosi di Napoli, dal Maschio Angioino a Castel dell’Ovo con la vista delle colline di Mergellina e Posillipo ha rivelato il volto splendido della città mentre la passeggiata a Spaccanapoli e nel quartiere di San Gregorio Armeno ci ha mostrato sia la ricchezza dei palazzi e delle chiese che il lato pittoresco della famosa via dei Presepi. Questa è stata per noi una settimana di estate in più: infatti la sera Milano ci ha accolto con un po’ di pioggia! Laura Re |
LE GRANDI RELIGIONI
Venerdì 19 novembre 2021 Enrico Sciarini ha introdotto un bel gruppo di partecipanti alla conoscenza del filosofo e teologo svizzero Hans Küng (1928/2021) e di quella che avrebbe dovuto essere la mostra digitalizzata delle religioni mondiali. E’ stata invece una mostra dei pannelli già utilizzati nel 2004 al centro civico di Milano 2 che vide anche la partecipazione di Küng stesso. Il pensiero fondante di Küng è: “Non ci può essere pace tra le nazioni se non c’è pace tra le religioni”. Da qui nasce la sua ricerca dei punti in comune fra le varie religioni e, in particolare, la ricerca della morale e dell’etica comune. Küng fu ordinato sacerdote nel 1954 e nel 1962 al Concilio Vaticano II fu tra i padri consigliari insieme a Ratzinger anche se i due avevano idee contrastanti. Andrà all’università di Tubingen dove creò la fondazione etica mondiale. L’Induismo sembra essere la più antica delle religioni risalendo a 2000 anni a.C. Il Buddismo fu fondato da Siddharta (600 anni a.C.). Il Confucianesimo fu fondato da Confucio che nacque in Cina 500 anni a.C. L’Ebraismo ha come capostipite Abramo ma Küng ne indica Mosè come fondatore poiché a lui furono date le tavole della legge. L’Islam è la religione fondata da Maometto nel 600 d.C. Il Cristianesimo è la religione fondata da Gesù di Nazareth la cui nascita segna anche l’inizio del calendario in uso in tutto il mondo. Quanto accomuna le 6 religioni è la regola aurea che recita: “Tutte le cose dunque che volete che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle a loro”. Ne derivano il rispetto per la vita, la non discriminazione fra i popoli, il non rubare né alla società nè alla terra, l’agire onestamente e con sincerità, l’amarsi e il rispettarsi vicendevolmente e la solidarietà e la fiducia verso gli altri. Gemma Fabiane - Rosaria De Gregorio |
La dichiarazione universale delle responsabilità dell’Uomo: Diritti e Doveri
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TRA CASTELLI, PALAZZINE DI CACCIA E CANTINE
Visita a Chignolo Po e San Colombano 8,30: tutti pronti! Ma l’inghippo del Green Pass impedisce a due persone di partecipare. Partiamo spediti e superiamo brillantemente il particolareggiato controllo dell’autobus da parte della Polizia Stradale. Tutto merito del nostro autista Stefano. Arriviamo puntualissimi e le guide ci aspettano con un po’ d’impazienza. Con Maria Elena visitiamo questa piccola Versailles che ha visto soggiornare tante teste coronate e tanti capi di Stato. Tutto è iniziato nel 740 d.C. quando il re longobardo Liutprando fece costruire la grande Torre che passò poi a Berengario e ai monaci benedettini dell’Abbazia di S. Cristina costituendo un presidio sicuro per i pellegrini che percorrevano la via Francigena. Passando dai nobili Federici e Cusani per volere del cardinale Agostino Cusani Visconti, il Castello si arricchì di giardini, gazebi, statue e fontane. Seguendo la nostra guida passiamo attraverso appartamenti e sale dagli elaborati stucchi e splendidi affreschi di scuola tiepolesca. Ammiriamo le antiche sale dei banchetti di caccia con le cucine e le cantine storiche. La Palazzina di Caccia, divenuta Villa di Delizia, non cessa di affascinare. Ripartiamo e attraversando dolci colline coperte di vigneti arriviamo all’agriturismo dove consumiamo un pranzo tipico, originale e … lo gustiamo lentamente. Dopo la visita alla cantina e gli acquisti, ripartiamo verso San Colombano al Lambro: grazioso borgo dominato da un castello guelfo che dispone l’animo alla tranquillità. La passeggiata lungo la via principale invita agli acquisti di ogni genere; pare proprio che allontanandosi dalla grande città si facciano affari! Eccoci pronti per il rientro con una bella atmosfera amichevole che arricchisce la giornata. Elide Rattellini |
La città del signor Crespi
Visita a Crespi d’Adda Un giovedì di fine ottobre, su un ottimo pullman quasi pieno e con un bel sole calduccio siamo partiti per una frazione di Capriate San Gervasio (BG) che si chiama Crespi d’Adda. La denominazione deriva dal nome del suo visionario fondatore Cristoforo Benigno Crespi e dal fiume Adda che tanta parte ha nella storia di questo villaggio operaio di fine ottocento. Al nostro arrivo una bravissima guida ci ha introdotto nei segreti di Crespi d’Adda che sembrano un avvincente romanzo ma che, invece, sono storia. Il signor Crespi era un industriale tessile di Busto Arsizio che, a un certo punto, decise di espandersi anche in altri territori lombardi creando nel 1878 una fabbrica in questa zona della bergamasca dove l’Adda fa da confine col milanese; una zona perfetta per i suoi scopi, proprio per la vicinanza del fiume che gli ha consentito di costruire una centrale idroelettrica da cui generare l’energia necessaria a muovere le sue macchine filatrici. La fabbrica nel tempo si è arricchita di altre attività: dopo la filatura è arrivata la tessitura e, infine, anche la tintura dei tessuti. Ma al signor Crespi non bastò metter su una bella fabbrica e volle anche che, attorno a questa, si sviluppasse un intero quartiere per dare ai suoi operai una casa e alle loro famiglie anche una scuola, una chiesa, un medico, un dopolavoro, una caserma dei Carabinieri e perfino un cimitero. C’era anche un lavatoio per evitare che le donne dovessero andare fino al fiume per lavare i panni. Tutto a sue spese. Inizialmente costruì palazzine di due piani con diversi alloggi e poi villette per tre/quattro famiglie con un giardinetto e la possibilità di fare l’orto. Non era tutto rose e fiori, come ci ha chiarito la nostra bravissima guida: c’erano infatti anche i lati meno positivi. Innanzitutto, secondo l’usanza del tempo, le donne operaie guadagnavano meno degli uomini e meno ancora i bambini che venivano impiegati dopo la quinta elementare. Le case poi erano diverse a seconda dell’occupante: più belle e grandi le villette dei capisquadra e ancora più ricche di ornamenti e spaziose quelle dei dirigenti. Una gabbia d’oro, secondo alcuni, perché avere intorno tutto quanto serve alla vita teneva le persone come imprigionate nel villaggio. La villa Crespi, oggi disabitata ma ancora in ottimo stato di conservazione, sembra un castello: era dotata persino di telefono come si conveniva alla casa del “signor padrone”. Spirito del tempo! L’avventura del villaggio operaio di Crespi d’Adda è finita nel 1929 in occasione del grande crack della Borsa americana. Le villette sono state acquistate dai discendenti di quegli operai riuniti in cooperativa, oppure vendute sul libero mercato. La fabbrica ha continuato a funzionare fino agli anni ’70 e la centrale idroelettrica vent’anni di più (ma nel 2010 ha ripreso con moderni macchinari). Oggi il sito è Patrimonio Mondiale dell’Umanità, sito Unesco fin dal 1995, visitato da turisti italiani e stranieri. Deve perciò essere mantenuto nelle condizioni originarie e non può essere destinato ad attività in contrasto con la sua vocazione. Eppure il signor Percassi (quello che voleva costruire il mega centro commerciale a Segrate e che ha poi dovuto vendere il progetto agli australiani di Westfield) sta meditando di acquistate la fabbrica per farne sede di negozi... In definitiva, un’oretta di pullman, tre ore avvincenti di visita, circa sei chilometri di camminata: grazie, soprattutto a Ornella per la perfetta organizzazione! Santina Bosco |
L’Enciclica “Fratelli tutti” letta e interpretata da una persona semplice
Mi sono deciso a scrivere le mie considerazioni sull’Enciclica “Fratelli tutti” perché non sono riuscito a concretizzare il mio desiderio di poterla leggere e commentare insieme ad altre persone. Per rendere il più chiaro possibile quanto scrivo, userò piccoli accorgimenti “tipografici”. Metterò, cioè, tra virgolette quanto riporto direttamente dallo scritto di papa Francesco e tra parentesi la pagina di riferimento e userò il carattere corsivo per le mie personali considerazioni, il carattere maiuscolo e il grassetto per evidenziare alcune parole. A coloro che vorranno leggermi, ritengo sia utile avere a disposizione una copia dell’Enciclica in modo tale da poter seguire visivamente le pagine citate. Gli otto capitoli dell’Enciclica sono preceduti da un’introduzione nella quale il Pontefice raccoglie l’invito di San Francesco “a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio” (p.29), ossia “ di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica e al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita” (p.29). Coloro che NON sono d’accordo con questa proposta la definiscono utopistica e la considerano irrealizzabile senza neppure tentare di metterla alla prova per ottenere qualche risultato, anche se solo parziale. Ma dietro questo rifiuto si nasconde quasi sempre un altro motivo: il potere e/o il denaro. Più avanti papa Francesco afferma di essersi sentito stimolato dal Grande Imam Ahmad Al Tayyeb, con il quale si è trovato d’accordo che “Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro” (p.32). Questo è anche affermato nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sancita dalla Nazioni Unite nel 1948. Nel paragrafo 6 il papa afferma di aver scritto l’Enciclica “a partire dalle mie convinzioni cristiane … Ho cercato di farlo in modo che la mia riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà” (p. 33). Perché solo a quelle di buona volontà? Non sono forse quelle di “cattiva volontà” che hanno maggior bisogno di essere guidate verso comportamenti migliori? Paragrafo 7: “l’inattesa pandemia del Covid19 ha messo in luce le nostre false sicurezze. … È apparsa evidente l’incapacità di agire insieme. … Se qualcuno pensa si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già stavamo facendo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà (pp.33/34). E’ passato circa di un anno e mezzo da questa affermazione e forse sono di più coloro che pensano di poter proseguire come prima della pandemia, quando sarà finita. Per fortuna ci sono anche persone e Governi impegnati alla ricerca di nuove regole, nuovi sistemi, nuovi comportamenti per un futuro nel quale le prossime generazioni possano ancora godere delle bellezze del Creato. Qualche buona indicazione la si troverà anche nella lettura degli otto capitoli dell’Enciclica. Enrico Sciarini |
“Come sto oggi”
Il 14 ottobre scorso si è svolto l’incontro con la psicologa Dott.ssa Elide Rattellini con una buona partecipazione di persone, fra cui anche qualche uomo, interessate ad ascoltare la dottoressa che ha esordito complimentandosi con i partecipanti e con il Movimento della Terza Età dicendoci che siamo sulla buona strada poiché nel movimento c’è socialità, gioco, viaggi, cultura, etc...: tutti aspetti necessari per non rinchiudersi nelle proprie case e magari lasciarsi avvolgere da nostalgie o depressione. Nel caso di una depressione grave, sarà però importante rivolgersi a uno specialista e non temere di assumere farmaci se prescritti. Siamo infatti in un’età in cui abbiamo o stiamo perdendo il ruolo che si ricopriva in precedenza, genitoriale, e/o lavorativo e questo tende a destabilizzarci. Un suggerimento è quello di poter scegliere un medico di fiducia, un’infermiera e/o un fisioterapista: tre figure utili sulle quali contare per dubbi sulle patologie, massaggi, ecc... Circa l’insonnia, pur sapendo che gli anziani solitamente dormono meno ore di un tempo, nel caso di importante riduzione del sonno, bisognerebbe valutare le nostre abitudini: una cena troppo presto o troppo tardi la sera, il fatto di addormentarsi davanti alla tv e poi non riuscire più a riprendere il sonno, i pensieri negativi da non assecondare. La dottoressa ha poi parlato della fragilità e dell’ansia: due aspetti con i quali dobbiamo abituarci a convivere. La fragilità fisica implica di avere maggiore attenzione nei movimenti. Dell’ansia, invece, non dovremmo avere paura ma concentrarci su come trovare una soluzione a eventuali problemi che ci assillano magari anche con-fidandosi con qualche buona amica, come a una sorta di “io supportivo”, che potrebbe dare suggerimenti utili e fare da controcanto ai nostri dubbi. Da evitare la “ruminazione mentale” che ci fa continuamente ragionare sulle scelte fatte, sugli episodi negativi vissuti e sulle nostre frustrazioni: bisognerebbe pensare di fare un buco profondo e versarci dentro tutto ciò che ci fa star male. Molto utile l’incontro: i suggerimenti da una psicologa esperta sono importanti e restano meglio impressi nella memoria. Sono poi state poste alcune domande:
Gemma Fiabane |
Il termine "psicologia" deriva dal greco psyché (ψυχή) = spirito, anima e da logos (λόγος) = discorso, studio, letteralmente ad indicare quindi lo studio dello spirito o dell'anima. Il significato del termine, introdotto durante il XVI secolo, rimase immutato fino al XVII secolo, quando assunse il significato di "scienza della mente" e negli ultimi cento anni è cambiato ulteriormente adeguandosi alle nuove prospettive e alla moderna metodologia. E’ interessante segnalare che dal punto di vista iconografico il termine psyché può essere interpretato come farfalla: molte decorazioni di antichi vasi greci raffigurano con l'immagine di una farfalla lo spirito (anima) che esala nell'istante della morte.
IL CUORE DI NAPOLI
Avevo lasciato mia madre in lacrime e anch’io, nonostante avessi cercato di essere forte, non ce l’avevo fatta a non piangere e su quel treno, in mezzo a tanti ragazzi che come me avevano lasciato la loro casa per il servizio di leva, facevo come loro lo spiritoso per sembrare più uomo di quello che ero ma avevo il “magone” e negli occhi l’immagine di mia madre che piangeva e mi abbracciava forte raccomandandomi di comportarmi bene e di pregare la Madonna che mi avrebbe aiutato nei momenti di tristezza e di difficoltà. Arrivammo a Napoli che era mattino presto e, appena scesi dal treno, fummo subito imbarcati sul camion che ci avrebbe portato in caserma. Nella camerata ogni forma di privacy era annullata. La notte poi era, a dir poco, traumatica: c’era chi parlava nel sonno, chi piangeva, chi russava e chi scoreggiava. Per non parlare della puzza di piedi di quelli allergici al sapone che impregnava pesantemente l’aria, mescolandosi al fumo delle sigarette che avevamo fumato per tutta la sera e che creavano un effetto da camera a gas. La mia branda era a ridosso del muro e, quando mi coricavo, girandomi da quella parte e mettendo la testa sotto le coperte, riuscivo a isolarmi concentrandomi sulle mie cose attutendo la colonna sonora e gli odori della camerata fino ad addormentarmi. Già dai primi giorni si evidenziarono i diversi caratteri delle persone: c’erano gli spacconi come il gruppo di romani “da ‘a Garbatella” che facevano combutta tra di loro e cercavano in tutti i modi di imporsi sugli altri anche con atteggiamenti minacciosi; c’erano quelli, come me, che stavano nel loro brodo e si lasciavano scivolare sopra tutto perchè tanto la naja sarebbe finita e poi c’erano quelli timidi e gli sprovveduti che, invece, subivano le prepotenze dei profittatori. Nella branda accanto alla mia c’era un ragazzo napoletano che sorrideva sempre a tutti ma non parlava con nessuno. Nei momenti di riposo dalle esercitazioni, fissava a lungo ogni componente del plotone come se ne stesse studiando il comportamento. Pensai che, certamente, nello stesso modo aveva studiato anche me ma non me ne fregava niente. Poi, una mattina, mentre eravamo allineati spalla a spalla nel cortile della caserma per l’alzabandiera, si girò verso di me tendendomi la mano: “Mi chiamo Acampora Vincenzo. Ho visto che sei uno che si fa i cazzi suoi, mi stai simpatico.” La sera stessa mi portò in un locale che lui disse essere il migliore di Napoli e, al momento di pagare, mi diffidò dal mettere le mani in tasca. “Qui io non pago, sono amici miei e tu sei con me. Se decidi di venire da solo devi dire che sei amico di Acampora Vincenzo e non ti fanno pagare. E’ questione di ospitalità.” Il tutto in un bellissimo e musicale accento napoletano. Nelle settimane seguenti mi portò a visitare ogni angolo di Napoli: Spaccanapoli e Forcella con le bancarelle piene di giocattoli e statuine da presepe, via Toledo e i quartieri spagnoli dove c’erano bambine che si prostituivano con i loro padri che facevano i procacciatori di clienti. “Vieni milità, mia figlia è ‘nu sciure (un fiore), con mille lire ti togli la voglia.” Al Rione Sanità passeggiammo in via Santa Maria Antesaecula dove mi mostrò la casa natale di Totò, poi la galleria Umberto Primo, il Maschio Angioino, Castel dell’Ovo, via Caracciolo, Mergellina e tutto quant’altro c’era da vedere in quella splendida città. Era un ottimo cicerone e ogni sera scoprivo una città completamente diversa dalla Milano che avevo lasciato. Le case “sgarrupate” di via dei Tribunali e dei quartieri spagnoli non avevano niente da dividere con i palazzi di corso Buenos Ayres e di Corso Vittorio Emanuele ma avevano un loro fascino. La serietà e la fretta di Milano qui lasciavano il posto a quella che Vincenzo definiva: “Anarchia Costituzionale. Vivi e non rompere ‘o cazzo.” Ogni giorno di più mi sembrava di esserci sempre vissuto e mi sentivo come a casa. Una domenica Vincenzo mi invitò a pranzo a casa sua e, prima che io avessi modo di rispondere, quantomeno fingendo, di non volere disturbare, mi mostrò il permesso di libera uscita per tutti e due. Non dimenticherò mai il tenero e affettuoso abbraccio della mamma di Vincenzo che mi accolse baciandomi e stringendomi a sé come se fossi stato un figlio facendomi commuovere fino alle lacrime: “No piccirillo mio non devi piangere, io da ora in poi sarò la tua seconda mamma, la tua mamma di Napoli, a me puoi chiedere tutto quello che vuoi come faresti con la tua mamma di Milano, io sono qui per te. Vincenzo mi ha detto che sei nu bravo guaglione e da ora in poi farai parte della nostra famiglia. Siediti qui vicino a me, ora pranziamo e poi mi racconti della tua mamma.” Grazie a loro, tutte le domeniche erano domeniche in famiglia, incredibilmente viziato e coccolato. Oltre agli inviti a cena la mamma, oramai la chiamavo così anch’io, mi lavava le camicie e la biancheria e ogni domenica mi stirava i pantaloni, e quando, non sempre per le scarse finanze, mi presentavo con un fiore o un piccolo regalo come segno di ringraziamento, non la smetteva più di abbracciarmi e di baciarmi sgridandomi per avere speso i soldi. Una domenica mattina, guardando l’ordine di servizio, vidi che mi avevano assegnato al turno di piantone alla camerata e dissi a Vincenzo che quella domenica non avrei potuto andare da loro e di scusarmi con la mamma. “Ne sei proprio sicuro?” Con tristezza lo guardai uscire pensando che per quella domenica invece degli abbondanti piatti di pasta con il ragù e le altre bontà che la mamma metteva in tavola, babà e sfogliatelle compresi, mi sarei dovuto accontentare del rancio della caserma. Verso le undici sentii l’altoparlante che mi chiamava al portone centrale, passai le consegne e mi precipitai all’entrata della caserma dove l’Ufficiale di Picchetto mi indicò un ometto sulla settantina, piccolo con una faccia solcata di rughe profonde, una giacca tutta lisa di due o tre misure più grandi della sua e un mozzicone di sigaretta spento che gli pendeva all’angolo della bocca. “E’ venuto tuo zio a trovarti, mentre ti preparo il permesso per visita parenti vai a cambiarti.” Vedendo la mia espressione di sorpresa, l’Ufficiale sorrise e disse: “Vai tranquillo, non preoccuparti, domattina vieni da me che ne parliamo.” Usciti dalla caserma l’uomo, in stretto dialetto napoletano, mi disse che dovevo affrettarmi chè la famiglia Acampora mi aspettava per il pranzo e, ancora prima che io riuscissi a decodificare quello che mi aveva detto, se ne andò. Quando arrivai alla casa mi accolse Vincenzo: “Ne eri proprio sicuro che non potevi venire? Quando l’ho detto a mammà voleva venire lei personalmente a prenderti.” Il mattino seguente andai dall’Ufficiale che mi consigliò di scegliere meglio i “parenti” per avere i permessi, quell’ometto si era presentato mostrato un foglio sul quale c’era il mio nome dicendo: “Songo ‘o zio di… di… come cazzo si chiama chisto ccà?” L’ultima domenica da loro fu un giorno molto triste: invece della solita atmosfera festosa pranzammo senza che alcuno dicesse una parola, mi sembrava di rivivere l’ultima cena a casa mia prima della partenza. Il papà e la sorellina di Vincenzo nel salutarmi mi abbracciarono piangendo e la mamma al momento del commiato mi infilò una mano in tasca lasciandovi, lo scoprii più tardi, una banconota da cinquemila lire (era il 1966) poi mi strinse forte a sé riempiendomi di baci, raccomandandomi di abbracciare forte mia madre e di dirle che la signora Acampora “Le vuole tanto bene pure a lei.” “Quando avrai finito il militare prendi la tua mamma e ve ne venite a Napoli ospiti nostri per tutto il tempo che vorrete, voglio proprio abbracciarla e dirle che suo figlio è ‘nu bravo guaglione”. Pensando all’amore che avevo trovato in questa gente così lontana dal mio modo di vivere e che mi aveva fatto capire cosa vuole dire il “Grande cuore di Napoli”, piansi tutta la notte senza riuscire a dormire. Se avessi potuto, avrei chiesto di fare tutto il servizio di leva a Napoli, vicino alla mia seconda mamma. A Napoli con mia madre non sono tornato, la necessità di lavorare, il tempo che passava e un po’ tutto hanno contribuito perché non ci andassi, però non ho mai dimenticato quella brava gente. Ci sono tornato più di quarant’anni dopo ma non sono andato alla casa di Ponticelli in Cupa San Pietro al numero otto, prima di partire avevo visto su Google Earth che era tutta diroccata e abbandonata, Vincenzo non era più lì e la mia “mamma napoletana” forse non c’era più. Dopo più di cinquant’anni sono ancora qui a ricordare e ringraziare quella famiglia che mi ha voluto bene, coccolandomi e viziandomi come e più di un figlio, facendomi sentire in famiglia anche a più di ottocento chilometri da casa mia. Paolo Ardrizzi |
La pizza
La pizza che mangiamo in compagnia, soprattutto di sera, per evitare di stare ai fornelli o che ci facciamo consegnare a casa, previa prenotazione telefonica, è ormai diventata un’abitudine per molte famiglie. La pizza nacque a Napoli per rispondere, con modica spesa, alla necessità alimentare della gente povera. Non è possibile individuarne la data di nascita ma si pensa che già nel seicento fosse conosciuta e confezionata con aglio, olio e origano oppure con i “cicinelli”, pesciolini tipo alici, oppure ancora con il formaggio pecorino. Tutti ingredienti che escludevano il pomodoro ma, con la scoperta dell’America, (1492) arrivarono in Europa i pomodori e altre verdure fino ad allora sconosciute: peperoni, melanzane, patate, etc… Qualcuno cominciò a usare il pomodoro rivoluzionando così, senza saperlo, la tecnica gastronomica e il gusto. Anche l’antica “pitta” venne rivitalizzata e riproposta dai napoletani. Confezionata con umili ingredienti dal costo di pochi centesimi (di lire), si diffuse tra i “bassi” e arrivò ai piani alti della corte dei Borboni. L’11 giugno 1889, Raffaele Esposito, titolare della più antica pizzeria di Chiaia, fu chiamato a corte. La regina Margherita, moglie di Umberto I, aveva sentito parlare della pizza come di un alimento molto saporito e lo invitò a prepararne una all’istante. Il pizzaiolo, sfoderando tutto il suo estro, ne preparò una tricolore, aggiungendo alla pizza classica napoletana il pomodoro, la mozzarella e il basilico. Fu così che nacque la più famosa delle pizze napoletane: “la pizza Margherita”. A Milano, fino agli anni trenta del secolo scorso, la pizza non era riuscita a conquistarsi un posto alla tavola degli ambrosiani. “Mi la pizza la mangi a Napoli e el pes el mangi al mar!” Ma l’11 ottobre 1929 alzò la “cler” una trattoria/pizzeria dotata di forno a legna. Il coraggioso milanese si chiamava Leone Legnani e il suo locale, il “Santa Lucia”, era situato, a due passi dal Duomo, in via Agnello. La tenacia del Legnani fu premiata: i milanesi cominciarono a mangiare la pizza. Dopo anni di delusioni e vane attese, dal “Santa Lucia” di via Agnello partì la moda del più povero e gustoso cibo del mondo. Era l’oro di Napoli che sciamava per il nord Europa. Fernanda |
Dubbi amletici per i nostri amici ...
- Se un agente che si dà delle arie è un agente atmosferico?
- Se Garibaldi è partito da Quarto chi erano i tre prima di lui?
- Se cerchi di strozzare un puffo di che colore diventa?
- Se il mio capo si droga io sono un tossico dipendente?
- Il prete che viene ricoverato in ospedale quando esce è curato?
- Perche si chiama contagoccce se poi le gocce te le devi contare da solo?
- Sono le pecore di Murano che fanno la lana di vetro?
- Se le mie due figlie sposano due salumieri io ho due generi alimentari?
- Se è vero che l’universo si sta espandendo perché non trovo mai parcheggio in piazza del comune?
- Ma un donnaiolo incallito dove li ha i calli?
- Quando un bancario muore viene seppellito in una cassa costosa o in una cassa di risparmio?
- Se va via la corrente i bambini possono venire lo stesso alla luce?
- Lo strato d’ozono sopra la Svizzera ha tanti piccoli buchi?
- Il compito a casa si da’ anche agli studenti sfrattati?
- Con uno stipendio da fame si possono nutrire dei dubbi?
- Ma un ottico balla solo lenti?
- Genero in sardo si dice nuoro?
- All’opera bisogna andarci con un vestito intonato?
- Se il piatto piange… la roulette russa?
- Perche’ si chiama sala-parto se ha solo nuovi arrivi?
- Per diventare un grande sarto bisogna avere molta stoffa?
- Lo stitico quando muore va in purgatorio?
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