Articoli del giornalino maggio / giugno 2022
ATTENZIONE: Vi informiamo che la stampa del giornalino cartaceo MACCHE' ANZIANI D'EGITTO numero 3 di maggio- giugno, in distribuzione in questi giorni, per errore dello stampatore, riporta delle date non corrette, mentre quelle pubblicato sul sito e il calendario inviato per whatsapp e newsletter sono esatti.
In questo tremendo periodo di malattie e di guerra pubblichiamo questa riflessione di Pietro sulla Speranza per aiutare ed aiutarci nella Fede.
La Speranza è una bambina da nulla
Sabato pomeriggio passeggiavo nella campagna. Pensavo a quanto sta accadendo: prima la pandemia, ora la guerra vicino a casa. Violenza cieca e ottusa, che credevamo un retaggio del passato. E, mentre domande senza risposta si affollavano nella mente, mi sono fermato dinanzi ad un boschetto circondato dai rovi. Guidato da un raggio di sole, lo sguardo è caduto oltre, su uno sparuto ciuffo di violette che crescevano tra l’erba. E mi sono chiesto: è tutto qui, oppure, oltre, ci sono altri fiori? Mi sono avvicinato, ho scostato i rami, superato i rovi, e sono entrato nella radura. Più in là un altro ciuffo di violette, poi altre ancora: le violette si estendevano a perdita d’occhio. Mi sono seduto. Non avevo bisogno di cercare altri fiori. C’è, nella nostra storia personale e nella storia del mondo, un cuore che pulsa, una vita nascosta, innumerevoli semi di bene e bellezza che fioriscono, oltre le asprezze del presente e la desolazione del male. Sono il fiore della speranza. Scriveva Charles Péguy: “La Fede è una Sposa fedele. la Carità è una Madre. La Speranza è una bambina da nulla. … Avanza tra le due sorelle grandi e non si nota neanche. … E’ lei, quella piccina, che trascina tutto. Perché la Fede non vede che quello che è. E lei vede quello che sarà. La Carità non ama che quello che è. E lei, lei ama quello che sarà. … Quando loro scendono lei sale, quando tutto scende solo lei risale e così le doppia, le decuplica, le allarga all’infinito.” La Speranza è una bambina da nulla: ma, nei momenti difficili, prende per mano fede e carità. Ci aiuta a credere all’amore e vivere l’amore. La speranza è una bambina da nulla: ma, se stringiamo la sua mano e, fatti bambini, ci lasciamo coinvolgere nel suo gioco da nulla, ci conduce oltre, ci spalanca l’infinito. La speranza è una bambina da nulla: ci dona l’umiltà del cuore, la fortezza e la mitezza nell’agire, lo spirito di profezia per guardare alla nostra storia e alla storia dell’umanità con gli occhi di Dio. Chiediamo al Signore di accogliere questa bimba, per entrare nel regno dei cieli. Pietro Pinacci |
Il Papa in tv
Se si confrontassero gli indici di ascolto per stabilire la validità di una trasmissione televisiva, il festival di Sanremo batterebbe il Papa 65 a 20. Siccome penso però che il pensiero di un Pontefice valga molto di più di una ventina di canzoni, ho ascoltato tutto quanto ha detto Papa Francesco durante la trasmissione di domenica 6 febbraio su Rai3 e ho preso nota di quanto andava dicendo. Come me ha fatto la stessa cosa l’Agenzia Telegrafica Svizzera (ats) e il Corriere del Ticino ha pubblicato quanto segue: Papa Francesco da Fabio Fazio: «Non sono un santo, ho bisogno degli amici» A «Che tempo che fa» il pontefice, collegato dal suo appartamento di Santa Marta, ha parlato delle crisi nel mondo ma anche di gusti musicali e della propria gioventù. Ha parlato di guerre da fermare, di migranti da aiutare, della «madre Terra» da preservare, della vicinanza agli altri che è anche «toccare», del rapporto tra genitori e figli e del futuro della Chiesa ma anche dei suoi gusti musicali dove il tango ha un posto speciale. È stata una conversazione a tutto campo quella tra Fabio Fazio e Papa Francesco che ha affermato d’aver deciso di stare a Santa Marta “perché ho bisogno degli amici, non sono un santo”. «Ci sono lager nella Libia», «dobbiamo pensare alla politica migratoria» e l’Europa deve farlo insieme, «l’Unione europea deve mettersi d’accordo» evitando che l’onere ricada solo su alcuni Paesi come «l’Italia e la Spagna», ha detto il Papa ricordando le sofferenze dei migranti che attraversano il Mediterraneo che «ormai è diventato un cimitero» per sfuggire alle guerre e alla fame. E allora non bisogna girarsi dall’altra parte. «Ci manca il toccare le miserie e il toccarle ci porta all’eroicità, penso ai medici e agli infermieri che hanno toccato il male durante la pandemia e hanno scelto di stare lì. Il tatto è il senso più pieno perché toccare è farsi carico dell’altro». Ma «dobbiamo prenderci carico anche della Madre Terra: i pescatori di San Benedetto del Tronto venuti da me hanno trovato una volta tonnellate di plastica e hanno ripulito quel tratto di mare. Buttare la plastica in mare è criminale, uccide la terra, dobbiamo tutelare la biodiversità, dobbiamo prenderci cura del Creato». Poi ha rivolto uno sguardo alle famiglie: «Serve vicinanza con i figli. Quando si confessano coppie giovani o parlo con loro chiedo sempre: ‘tu giochi con i tuoi figli?’ A volte sento risposte dolorose: ‘Padre, quando esco dormono e quando torno pure’. Questa è una società crudele che allontana genitori dai figli. Anche quando i figli fanno qualche scivolata, anche da grandi, bisogna essere loro vicini, bisogna parlare ai figli. I genitori che non sono vicini non operano bene, devono essere quasi complici dei figli, quella complicità che permette di crescere insieme padri e figli». C’è il mistero della sofferenza dei bambini che sono malati. «Se mi chiedete perché, non so rispondere». Il Papa ha poi parlato della Chiesa e del suo futuro: «Una Chiesa in pellegrinaggio». «Oggi il male più grande della Chiesa è la mondanità spirituale. È il peggiore dei mali che può accadere alla Chiesa, peggio ancora dei papi libertini» e «fa crescere una cosa brutta: il clericalismo che è una perversione della Chiesa che genera la rigidità e dove c’è rigidità c’è putredine sempre». Poi qualche confessione più intima. Sulla musica: «Mi piacciono i classici, tanto. E mi piace il tango». E lo ballava perché «un porteno che non balla il tango non è un porteno». La vita di oggi nella sua normalità. «Sì, ho degli amici che mi aiutano», «pochi ma veri» e con loro c’è un rapporto «normale». Poi scherza: «Non che io sia normale, ho delle mie anormalità ma mi piace stare con gli amici. Io ho bisogno degli amici. È uno dei motivi per il quale non sono andato ad abitare all’appartamento pontificio. Gli altri Papi sono santi ma io non sono tanto santo, ho bisogno dei rapporti umani». Da piccolo come immaginava il futuro? «La prima cosa che volevo fare era il macellaio» perché «quando andavo a fare la spesa con la nonna vedevo il macellaio che aveva davanti una borsa dove metteva tanti soldi», «sarà la mia radice genovese...». Poi gli studi in chimica e la preparazione per entrare nella facoltà di medicina «ma poi è arrivata la vocazione». Infine cita Vittorio De Sica che in un film chiedeva «cento lire». «Io vi chiedo cento preghiere». Aggiungo qualche personale considerazione: non penso che le domande siano state comunicate in anticipo al Papa, ritengo invece probabile sia stato richiesto di evitare domande su argomenti “scottanti”quali: il matrimonio dei preti; il sacerdozio per le donne; l’infallibilità de Pontefice, etc… Domande alle quali Papa Francesco avrebbe forse risposto volentieri ma che avrebbero causato un po’ di “trambusto” nella Curia Romana. Enrico Sciarini |
LA RIVOLTA DELLA “E” CAPOVOLTA
Non so se sia prevalsa in me la curiosità o l’indignazione dopo aver letto, qualche tempo fa, su un quotidiano molto diffuso un articolo che aveva questo titolo. Non avendo capito bene di casa si trattasse, ho letto e riletto più volte l’articolo per cercare di capirne il contesto e, soprattutto, cosa volesse significare quella strana parola “SCHWA” che troneggiava nella pagina del giornale nell’occhiello di una grossa “e” capovolta. Pensavo che fosse un nuovo neologismo entrato nel nostro linguaggio e mi incuriosiva anche sapere che l’avesse inventato. Ho così scoperto che l’ideatore era stato un linguista tedesco di nome Johoann Andreas Schmeller che, nel 1821, voleva recuperare questa “e” rovesciata per dare un simbolo a una lettera molto breve del tedesco bavarese (?). La scritta SCHWA viene usata ora per sostituire le desinenze maschili e femminili al singolare (*). Per il plurale si utilizza la SCHWA lunga (*). L’idea è di rendere il linguaggio più inclusivo: non è un maschile, non è un femminile ma è un finale neutro del vocabolo. Per fare un esempio pratico, invece di dire pittore e pittrice o scrittore e scrittrice si scrive pittor* e scrittor* con la “e” capovolta. Non mi sembra una cosa semplice! Il tutto per azzerare secoli di evoluzione linguistica in nome dell’inclusione. Altra sorpresa: il sopratitolo dell’articolo aggiungeva un dettaglio molto significativo. Il caso: la raccolta delle firme. Siamo molto abituati, in questi tempi, a raccogliere firme per vari motivi ma per questo caso, forse, non ne sentivamo la mancanza. O sbaglio? Ma la cosa che più mi ha sorpreso è che la raccolta di firme ha già raggiunto 6.000 adesioni con l’appoggio di scrittori e di intellettuali che vanno per la maggiore. L’Accademia della Crusca (che rappresenta una delle più prestigiose istituzioni linguistiche dell’Italia), a cui la questione non poteva sfuggire, intervenne in modo molto duro contro l’introduzione della “e” capovolta, promossa dai promotori, per rendere la lingua italiana più inclusiva e meno legata al predominio maschile. Per associazione di idee, mi è venuto in mente il maestro Manzi che, dal 1960 al 1968, aveva diffuso alla televisione quel programma che si chiamava “Non è mai troppo tardi” per insegnare a scrivere e a leggere agli analfabeti che, ancora in quegli anni, erano molti. Purtroppo il maestro Manzi è scomparso nel 1997 e mi immagino come avrebbe commentato questa rivoluzione linguistica! Nella mia carriera scolastica mi sono molto impegnata a insegnare bene la nostra lingua insistendo sull’ortografia, sulla sintassi, sull’analisi grammaticale e logica. Poi mi sono anche chiesta: ma queste contorsioni linguistiche quali danni avrebbero potuto arrecare a chi ha problemi di dislessia o di altre patologie neuroatipiche? Infine mi sono anche chiesta, come dicevano i latini, “Cui prodest”? A chi giova? Io sono ormai anziana e questa modifica della “e” capovolta non mi affascina per niente e voglio sperare invece che le nuove generazioni possano fare qualcosa di molto più utile per questa desolata umanità. Fernanda |
Non è una chiesa normale
Visita alla Certosa di Garegnano L’8 marzo, con il movimento della terza età, abbiamo visitato la Certosa di Garegnano incontrando anzitutto la guida, che dopo il suo pensionamento, si è appassionata alla storia della Certosa ed è risultata preparata e piacevole. La sua premessa è stata: “non è una chiesa normale”. E’ stata fondata dai certosini che erano tutti sacerdoti e amanuensi dediti al silenzio e alla preghiera. Frequentavano la certosa anche i “conversi” che potevano entrare e uscire dalla certosa per lavorare la terra e vendere i prodotti nei mercati. I certosini avevano un solo abito, 7 kg di peso, e 7 erano anche gli anni di noviziato prima di essere accolti nell’ordine. Si cibavano solo di cibi bianchi (latte, formaggi, etc…). Ricopiando preziosi libri di diverse scienze, i certosini si appassionavano di medicina, astrologia, architettura e adoperarono le loro conoscenze per realizzare la loro Chiesa in cui “ogni cosa ha il suo posto”. I fondatori dell’ordine sono stati San Bruno, professore universitario con il dono della bilocazione e Sant’Ugo. Attualmente il monastero non c’è più e le singole casette dei monaci sono finite in rovina prima che venisse costruita l’attigua autostrada. Nel 1349 Giovanni Visconti, Signore e Vescovo di Milano (da notare che al tempo Milano era il granaio d’Italia), chiamò i certosini per predicare a Milano. Per erigere la certosa venne scelto un luogo che risultasse più elevato rispetto a Milano, chiamato addirittura monte di Garegnano. Giovanni Visconti acquistò le terre necessarie dai contadini vicini ma ci tenne a far sapere che non aveva usato soldi dell’erario ma solo denari personali. Per la posizione più elevata del terreno e considerando che la falda acquifera era bassa, si realizzò nelle vicinanze il cimitero di Musocco. La chiesa è orientata da est a ovest con 15° verso nord. Tutto questo per ottenere un rimando al Vangelo. Giovanni Battista e Gesù erano cugini e nacquero con sei mesi di differenza: Giovanni nel solstizio d’estate e Gesù in quello d’inverno. Giovanni lascerà il posto a Gesù per il battesimo e la predicazione. Durante il solstizio d’estate la basilica fa ombra a sé stessa: ombra che scompare a partire dal 25 dicembre quando il sole comincia a risalire. Con questa posizione si vuole indicare che la preghiera è continua. Numerologia: gli ebrei hanno come riferimento il n. 4, noi abbiamo il 7 (perdona 70 volte 7); il 12 (le tribù d’Israele) indica l’universalità e di solito sono 12 le stelle intorno al capo della Madonna; 13 “con me sempre”. Francesco Petrarca ha vissuto 7/8 anni nella certosa poiché aveva un fratello certosino ma, da converso, era libero di muoversi a suo piacimento. La prima corte che si trova è quella delle “elemosine” dove si distribuivano cibi e indumenti ai bisognosi. Il cortile d’onore, chiuso al pubblico, veniva usato solo per le manifestazioni importanti. I due cortili sono realizzati in ciottoli bianchi e neri a formare dei disegni. Nel 1500 la chiesa venne in parte distrutta dai briganti. E’ dedicata a Dio e alla Madonna assunta in cielo; peccato che, guardando il bassorilievo rosso, molti di noi vi avessero visto l’assunta mentre è la Maddalena portata in cielo dagli angeli. Maddalena è la prima donna a vedere Gesù risorto. Il connubio Giovanni Battista e Maddalena sta a significare che serve sia la visione femminile che quella maschile. La chiesa è a pianta a croce e l’altare si trova ai piedi della croce con il sangue di Cristo che esce dai piedi e non dal costato. Nella semi cupola è dipinto il Cristo che si piega su sé stesso. Unica è la navata di 40 metri, dipinta da Daniele Crespi, con cappelle laterali per i monaci. Nel 2000 gli affreschi sono stati semplicemente ripuliti dal fumo delle candele riportando i colori all’antico splendore. Da ricordare che i materiali impiegati per la Certosa dovevano essere i migliori “senza sparagno” e che le colonne erano rivestite di oro zecchino che Napoleone si procurò di rimuovere. Particolare è l’effetto ottico del pavimento. A dividere la navata in due parti c’erano delle grate che dividevano il pubblico dai monaci. La sala capitolare, dove i monaci si radunavano per le decisioni, ci sono scranni in legno intarsiato e il pavimento è originale. Sulla parete è raffigurato l’eccidio di Londra perpetrato da Enrico VIII nel 1600 massacrando tutti i certosini con l’unico sopravvissuto che andò a costituirsi. Nelle due pareti laterali dell’altare, da un lato c’è la natività e, di fronte, la visitazione dei magi il cui numero (3) è solo simbolico. L’oro indica la regalità, l’incenso il super io e la mirra l’olio per i morti. Entrambi gli affreschi furono realizzati da Simone Peterzano. Sul fronte della facciata è riportata la data 1608 e ci sono le statue dei fondatori San Bruno e Sant’Ugo; la sacra famiglia che riposa durante la fuga in Egitto; Sant’Ambrogio e San Carlo e, più in alto, in pietra rossa la Maddalena mentre sulla sommità è la Madonna affiancata da due angeli. Ci sono stati raccontati un po' di aneddoti interessanti. Insomma una visita piacevole in una fredda giornata di marzo. Gemma Fiabane |
Una serata al Teatro Gerolamo
Nel cuore della città, in piazza Beccaria, un modesto portone di un palazzo introduce in un piccolo teatro in stile neoclassico con due ordini di palchi, un loggione e una platea, tutti in dimensioni ridotte, che i milanesi hanno soprannominato la “Piccola Scala”. Si tratta del Teatro Gerolamo: un piccolo gioiello di architettura e un affascinante pezzo di storia della città da scoprire passo per passo, come abbiamo fatto noi, ascoltando in platea il direttore artistico che ce ne ha raccontato vicende, curiosità e aneddoti. Fu costruito in pochi mesi nel 1868 dalla stessa impresa che stava erigendo la Galleria Vittorio Emanuele di cui utilizzò i materiali di recupero e (si dice) non solo come, per esempio, le colonnine dei palchi. La gestione fu affidata al marionettista Giuseppe Fiando che diede spazio anche al teatro dialettale. In seguito la più prestigiosa tra le compagnie che gestirono il teatro fu quella di Giuseppe Colla e Figli che creò spettacoli memorabili dal 1911 al 1957 in cui si ebbe una prima chiusura del teatro e si corse anche il rischio della sua demolizione. Recuperato da Paolo Grassi, per alcuni anni ha ospitato recital, cabaret e monologhi portando sulle scene importanti protagonisti come Franca Valeri, Tino Buazzelli, Paolo Poli, i coniugi Fo, Enzo Jannacci e Ornella Vanoni. Nel 1983 si ebbe la seconda chiusura perché il teatro non rispondeva alle nuove norme di sicurezza. Dal 2017, dopo un lavoro di restauro di sei anni, il Gerolamo, coi suoi 209 posti, è di nuovo il teatro di tutti i milanesi: dei grandi e dei piccoli; di chi vuole divertirsi con leggerezza e di chi nell’arte cerca spunti per riflettere. Ho avuto conferma di questo stretto rapporto, sentendo gli amici nati e cresciuti a Milano raccontare con affetto e nostalgia di quando da bambini andavano al Gerolamo accompagnati dai genitori o dai nonni. Ma come mai questo nome e non quello di una maschera più tipicamente milanese? Anche questa è una storia interessante. Il nome è quello di una maschera piemontese diffusa nel ‘700 con caratteristiche di critica e satira del potere. I capocomici che la portarono in giro corsero seri rischi e subirono arresti e condanne o furono costretti a fuggire sia a Genova (per l’assonanza col nome dell’allora doge Girolamo), sia nella Torino napoleonica (perché Gerolamo era il nome del fratello di Napoleone). Così riscrissero il canovaccio e nel 1808 cambiarono il nome in Gianduia. Nella Milano austriaca il problema non esisteva e il capocomico Fiando, uno dei promotori della costruzione del teatro, continuò a portarlo in scena, raffigurandolo addirittura sia sul frontone del palcoscenico che sull’arco d’ingresso alla platea. La prima parte della serata, in attesa dello spettacolo, si è conclusa con un simpatico “apericena” nelle eleganti salette di cui il teatro è dotato. Il recital Faber che è seguito ha ripercorso alcune importanti tappe della vita di Fabrizio De André con brani suonati e cantati dal vivo e con episodi tratti dai ricordi di chi ha avuto il privilegio di essergli vicino. Così abbiamo anche saputo il perché del soprannome Faber datogli da Paolo Villaggio: non per l’assonanza col suo nome ma per gli inseparabili quaderni neri e le moltissime matite Faber-Kastell che usava per le sue annotazioni. L’attrice e cantante Melania Giglio è stata bravissima nel restituire i sentimenti e le emozioni che vivono nelle canzoni di De Andrè inserendo però anche il suo vissuto nelle interpretazioni. Come succede ai grandi cantautori, le canzoni si intrecciano alla vita e ai ricordi di ognuno di noi. Il filo seguito è stato quello tracciato dai personaggi delle canzoni, pretesto narrativo, con cui si legano i brani uno all’altro: da Bocca di Rosa a Don Raffaé e chiudendo con Anime salve, un brano della maturità, dall’omonimo ultimo disco del 1996. Laura Re |
I CAPELLI: FORZA E DEBOLEZZA DI UN SIMBOLO
Siamo interessati al loro numero, alla loro lunghezza e al loro colore pur non avendo essi una funzione specifica nell’anatomia del corpo umano. Comunque sono utili perché garantiscono la protezione del cranio proteggendolo dagli sbalzi di temperatura. Già nella Bibbia, nel capitolo 13 del libro del Levitico, si parla dei capelli e sono indicate prescrizioni sanitarie in caso di lebbra. Salomone nel “Cantico dei Cantici” poeticamente dice “I tuoi capelli ondeggiano come un gregge che discende dalle alture del Gilad”. Oltre che mossi e seducenti, Salomone parla della forza erotica dei capelli della sua amata. Ci sono altri capitoli celebri in cui si parla di capelli nel libro di Giuda. Sono i capelli di Sansone, giudice biblico (1118/1078 a.C.). La vicenda è ricca di particolari e infatti la madre desiderava avere un figlio per consacrarlo a Dio. Sansone doveva astenersi dai cibi impuri, dal bere vino e, in particolare, dal tagliarsi i capelli perché facendolo avrebbe perso la sua forza. Ma, innamoratosi di Dalila, cedette alle sue insistenze e la mise al corrente del fatto che le sue forzute capacità provenivano proprio dai lunghi capelli mai tagliati dalla nascita. Dalila, durante il sonno, glieli tagliò e Sansone, per un’ultima volta, ebbe dai capelli la forza necessaria per distruggere il tempio e far morire i Filistei, suoi nemici, anche a costo della propria vita: “Muoia Sansone con tutti i Filistei” è la frase che tutti ricordiamo. In Samuele (1,11), i re di Israele erano esaltati per la bellezza delle loro chiome ma quella del principe Assalonne gli giocò un brutto tiro. In rotta con il padre, Davide lo fece inseguire dai suoi servi ma Assalonne, che cavalcava un mulo, per ripararsi entrò fra i rami di un grande albero che fermò il fuggitivo imprigionando la sua chioma e procurandogli l’arresto e la morte. Nel Nuovo Testamento, l’apostolo Paolo, rivolgendosi ai Corinzi, parla della capigliatura dell’uomo e della donna e consiglia capelli corti per l’uomo e lunghi per la donna spiegandone anche il motivo. Nel Vangelo di Luca (7,37) i capelli sono evocativi di un linguaggio d’amore. La donna peccatrice coinvolge la sua capigliatura per esprimere il suo pentimento e, bagnati di lacrime i piedi di Gesù, li asciuga con i suoi capelli. Nell’immaginario antico, i capelli sono considerati un prolungamento del pensiero e della mente e, quindi, rappresentano la bellezza e la seduzione. La parola “capelli” ricorre trenta volte nella Bibbia ebraica mentre nel Nuovo Testamento la parola usata è “tricos” e ricorre quindici volte. L’affermazione più consolante che possiamo ricordare sistemando al mattino la nostra capigliatura, ce la ripete Gesù: quando dice che il Padre del cielo conta i capelli del nostro capo, vuol farci capire che si interessa a noi in ogni particolare dettaglio. Perciò stiamo sereni! Fernanda |
Per la rubrica Te se ricordet i temp indrèe
LA LEVA CALCISTICA DEL ‘63 Giocare a pallone mi piaceva ma, scusate la falsa modestia, ero una discreta schiappa, però, nel mio piccolo, un paio di soddisfazioni me le sono prese. Era l’estate del millenovecentosessantatre, avevo diciassette anni, con un amico ancora più schiappa di me decidiamo di tentare l’avventura di un provino in una delle tante squadre che giocavano nella zona del vecchio campo Giuriati, esattamente dove poi sarebbe sorto il Centro Tumori. La domenica mattina, messe nella sacca un paio di vecchie scarpe da calcio che mi vanno anche un po’ strette, una maglietta e un paio di pantaloncini, prendiamo la bicicletta e andiamo all’avventura. Arrivati sul posto vediamo un gruppo di ragazzi ai bordi di un campo da calcio dove altri stanno giocando, la squadra è l’Enotria. Ci avviciniamo e c’è un signore anziano, più tardi sapremo che si chiama Paolo Tajana ed ha la bellezza di ottantadue anni, che alterna i giocatori in campo e quando li fa uscire ad alcuni dice lasciare il loro nome e ad altri, con modi molto paterni e di incoraggiamento, che non sono andati bene. Dopo esserci infilati pantaloncini, maglietta e scarpini ci presentiamo. Il signor Tajana ci guarda e quasi ignorando il mio amico che, con un po’ di pancetta nonostante la giovane età e la camminata da nato stanco non ha proprio l’aspetto del tipo atletico, dopo avermi chiesto il nome e quanti anni ho, mi dice: “Hai la faccia di uno bravo. In che ruolo giochi?” “Bastasse la faccia” penso io già presagendo la delusione che proverà, e gli dico che gioco ala destra, il ruolo dove di solito mi mettevano per non fare danni quando giocavo all’oratorio con quelli bravi. Mi guarda le scarpe: “Ho l’impressione che ti vadano un po’ strette o sbaglio?” Sono le uniche che ho ma rispondo che quelle con le quali giocavo si sono rotte ed ho preso quelle vecchie. “Vuoi rovinarti i piedi? Perché non te ne fai comperare un paio nuove da tuo papà?” “Mio padre è morto lo scorso dicembre.” Il vecchio signore rimane colpito dalle mie parole, mi abbraccia e mi stringe forte, poi chiama uno dello staff dicendogli di procurarmene un paio che mi vadano bene e facendomi entrare in campo mi da una carezza e mi incoraggia: “Vai e gioca tranquillo, non cercare di strafare.” Entro in campo e mi metto sulla fascia vicino alla linea laterale correndo avanti e indietro per seguire il gioco. Quando mi arriva la palla, sapendo di non sapere saltare l’uomo, anticipo l’intervento del difensore e la sparo subito verso l’area, un mio compagno di squadra la prende e la butta in rete. “Bravo. E’ cosi che si gioca, guardare come sono piazzati i compagni per giocarla di prima.” Continuo a starmene sulla fascia fuori dall’azione senza che qualcuno mi passi la palla, poi Tajana mi dice che devo stringere verso il centro e andare a cercare il gioco. Mi sposto verso il centro e al limite dell’area un compagno di squadra mi passa la palla, senza neanche tentare lo stop tiro subito più forte che posso verso la porta colpendola più di caviglia che di piede e ne viene fuori un tiro strano. Gol, Tajana è in delirio. “Vieni fuori, vai al tavolino e lascia il tuo nome per la Juniore C.” La domenica seguente l’Enotria affronta in amichevole la Juniores del Milan al campo Fossati. Primo tempo in panchina. All’inizio del secondo tempo il buon Paolo che, forse intenerito dal fatto che ho appena perso il papà, mi tiene vicino e mi coccola come fossi suo figlio, mi fa entrare: “Vai, gioca tranquillo e fai quello che sai fare, non guardare la maglia, non sono dei mostri, hanno due gambe come te.” Fingo di essere sereno ma ho una paura di fare la figura del cioccolataio che la metà basta.. “Quelli sono il Milan e io non so neanche stoppare la palla, figuriamoci affrontare l’avversario. Hai voglia dirmi di stare tranquillo, qui finisce male.” L’ala destra deve stare sulla fascia destra, giusto? E io me ne sto sulla fascia quasi contento di essere ignorato dai miei compagni. All’ennesimo invito a stringere mi sposto verso il centro e, visto che la domenica precedente è andata bene, appena mi arriva la palla tiro verso la porta più forte che posso colpendola di collo pieno e sorprendendo il portiere rossonero che forse non ha neanche visto partire il tiro e rimane immobile a guardare la palla che entra in porta. Quasi non ci credo, ho segnato un gol al Milan e sento Tajana che urla come se avesse segnato lui. mentre io rimango fermo a fissare la porta per averne conferma. Dopo pochi minuti, su azione da calcio d’angolo, nella mischia in area, c’è un batti e ribatti e sulla respinta di un difensore la palla mi rimbalza sul ginocchio e finisce in rete. Due gol al Milan, roba da fare cadere lo stadio, Tajana è in visibilio e per un attimo penso che voglia entrare in campo per abbracciarmi. Per il resto della partita mi nascondo dietro il terzino che, visti i due gol, ora mi marca stretto. A fine partita mi fanno il cartellino. Sono tesserato per l’Enotria , come altri con i quali gioco sempre all’oratorio, tesserati per la Scarioni, il (la) Gloria o altre squadre, ora posso dire che anch’io gioco in una squadra di Milano e non sono più un pollo da oratorio. A questo punto il rischio di credermi un campione è forte, ma, a parte un’altra amichevole con il Milan, giocata sul campo della Forza e Coraggio in via Forze Armate, dove non tocco palla ma ho la scusante che, visti i gol della partita precedente, mi marcano stretto, bastano un paio di partite giocate ai miei livelli, cioè da brocco, per farmi tornare con i piedi per terra e chiudere la mia esperienza calcistica. Tanto più che con l’arrivo della brutta stagione, la domenica mattina, invece di andare a prendere freddo facendo brutte figure, preferisco starmene a dormire nel mio letto al caldo. Di questa storia mi è rimasto il ricordo del signor, in tutti i sensi, Paolo Tajana che mi aveva preso a ben volere dimostrandomelo in ogni occasione e incoraggiandomi sempre, comprese le ultime partite giocate da schiappa. Paolo Ardrizzi |
Continuiamo con il racconto della vacanza in Andalusia…
CAPODANNO IN ANDALUSIA Parte II E cosa dire di Cordoba, un'importante città romana del cui periodo possiamo ammirare il lungo ponte sul Guadalquivir, che diverrà in seguito uno dei principali centri islamici nel medioevo. E' famosa soprattutto per la sua immensa moschea, la prima costruita in Europa e successivamente ampliata in diverse epoche, sempre nel rispetto di quanto già esistente, fino alla costruzione di una cattedrale al suo interno, al centro della sala di preghiera, che la consacrerà definitivamente a luogo di culto cattolico il 29 giugno 1236. La sua costruzione risale al 785 per volere dell'emiro Abd al-Rahman, dopo aver fatto demolire la basilica cristiana risalente tra il IV e VI secolo. Inizialmente comprendeva un cortile quadrato circondato da un muro di cinta sul quale si apriva la sala di preghiera di forma rettangolare. Le undici navate originali erano separate da colonne di marmo provenienti dagli edifici romani di Cordoba e dalla preesistente chiesa visigota. L'abilità dei costruttori islamici fu quella di riuscire a inglobarvi diversi stili e culture: i mosaici dai Bizantini, la sala a colonne dagli Egizi, l'arco a ferro di cavallo dai Visigoti, gli archi sovrapposti dall'architettura romana (vedi Acquedotto di Segovia). Il risultato è un'opera di indescribile bellezza. Osservando le mura dall'esterno, non si può lontanamente immaginare l'interno della struttura. Una selva di colonne, inizialmente 800 circa e alla fine più di 1200, che crea allineamenti e fughe a perdita d'occhio, mutevoli ma sempre esatte prospettive geometriche che quando entri quasi ti commuovi per la sensazione di infinito e di immenso oltre che a perderti con lo sguardo ad ammirare i preziosi soffitti, le volte, una ricchezza di opere e il luccichio dei materiali splendidamente conservati fino ai nostri giorni. L'ultimo degli ampliamenti del periodo islamico fu realizzato alla fine del X secolo con otto nuove navate sul lato orientale. Nel XII secolo, con l'arrivo in città dell'esercito cristiano, si iniziò ad apportare le modifiche per la costruzione dell'attuale Cattedrale di Cordoba al centro della Moschea che la rende un monumento unico al mondo. La mattina dell'ultimo giorno del 2021, ahimè un po' nuvoloso a dispetto del clima soleggiato che ci ha accompagnato fino ad oggi, ci concediamo una piacevole passeggiata a Puerto Banus, uno dei luoghi più esclusivi e alla moda della Costa del Sol a soli 7 km circa da Marbella, dove numerosi personaggi famosi hanno una casa. Fra essi Antonio Banderas, Zinedine Zidane, George Clooney e molti altri. Marbella fu per lungo tempo un possedimento islamico. Oggi è uno dei centri balneari più rinomati della Spagna, il vero centro della Costa del Sol, sinonimo di mare e divertimento. Ci addentriamo fra vicoli e stradine con le tipiche casette bianche e una miriade di negozietti di ogni genere, fino a raggiungere il centro storico da visitare rigorosamente a piedi per cogliere l'essenza della città con la bella Plaza de los Naranjos, un esempio di rinascimento castigliano. Qui si trovano gli edifici più belli e importanti della città unitamente a bar e ristoranti. Deve il suo nome alla grande quantità di alberi di aranci che la rendono così particolare. Rientriamo in hotel per il pranzo e poi un pomeriggio all'insegna del relax, fra una passeggiata sulla spiaggia di Torremolinos a cercare conchiglie e ad ammirare le costruzioni di sabbia in cui si diletta la gente del luogo, un po' di shopping, qualche chiacchiera, una partita a burraco e si arriva alla "meta" del nostro viaggio: il Capodanno! E qui dobbiamo ringraziare la nostra organizzatrice Eleonora per averci regalato una serata davvero all'insegna del divertimento in totale sicurezza. Elegantissimi ci siamo ritrovati per l'aperitivo, poco dopo la cena nel ristorante riservato solo al nostro gruppo e, all'avvicinarsi della mezzanotte, tutti in pista per ballare e brindare al nuovo anno... tutti rigorosamente con la mascherina, non di carnevale ahimé, quella famosa ffp2 che a volte ti toglie il respiro. Ma ci siamo divertiti e ricorderemo a lungo questo Capodanno particolarmente azzardato. Liliana Mondini Continua… Nel nostro sito alla pagina della Galleria o anche direttamente in https://www.maccheanzianidegitto.com/andalusia1.html
troverete tutte le belle foto scattate durante il viaggio! |
Non ci resta che ridere!
In una sera d’inverno, con la voglia di uscire a divertirci un po' e passare qualche ora in allegria, è stato un bello spunto quello di recarci a teatro. Così venerdì 28 gennaio, con un bel gruppo di amici, siamo andati al Teatro Repower ad assistere allo spettacolo “Non ci resta che ridere” proposto dai Legnanesi. Questa compagnia di soli uomini, ormai “donne” collaudate, è sempre spassosissima. Lo spettacolo si riassume in: “Passato e presente, tradizione e attualità: un tuffo nel passato per ricordare la cultura popolare e raccontare, nello stesso tempo, storie di tutti i giorni attraverso una comicità pulita, dedicata alla gente comune”. Nelle nostre belle poltrone in posizione decisamente comoda e molto vicini al palco, ci siamo goduti lo spettacolo. Il sipario si è aperto con l’apparizione della “elegantissima” Mabilia che, in vacanza a Parigi, è in visita al Louvre ad ammirare la Gioconda insieme a mamma e papà. Per Teresa il capolavoro deve tornare in Italia e così convince il povero Giovanni a compiere il misfatto, incurante del sortilegio legato al furto del celebre quadro. Il tempo di un gioco di luci e la famiglia Colombo si trova catapultata nel 1504, anno della realizzazione dell’opera. Un viaggio nel tempo alle prese con Leonardo e Giangiacomo Caprotti detto il Salai che in questo ruolo ha la voce di Berlusconi. Da qui prende il via una girandola di battute, malintesi, risate, ritmi incalzanti e omaggi al genio italico. Prima dell’intervallo tutta la compagnia è apparsa con sfavillanti costumi in un mirabolante quadro di rivista dedicato a Parigi con coreografie dei boys e una trionfale Mabilia. Nel secondo tempo un altro cambio dei tempi: eccoli nel 1918 durante la prima guerra mondiale con il cortile di casa trasformato in ospedale da campo e Teresa, in veste d’infermiera, che vuole cambiare il corso del futuro. La guerra è quasi finita ma per Teresa comincia adesso: ha già nostalgia della sua vita di tutti i giorni e del suo Giovanni. Ancora una volta la famiglia Colombo sottolinea i valori della famiglia, della necessità di parlare e imparare a volersi bene davvero. Gran finale in smoking per ricordare che, nonostante i problemi, “Non ci resta che ridere”. Ornella |
Ecco qualche bell’esempio trovato in rete…
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